Io sono nato a Brallo…beh tecnicamente sono nato all’ospedale di Voghera (sono un "M109"). Però sono cresciuto al Passo del Brallo, capoluogo del comune di Brallo di Pregola (ebbene si, vi ho tolto una certezza, un paese che si chiama "Brallo di Pregola" non esiste, è solo il nome del comune).

I primi anni della mia vita li ricordo ovviamente poco, anche perché i miei erano in piena attività ed io ero spesso sballottato di qua e di la da parenti e amici. Ero un bambino molto rompicoglioni, gli strizzacervelli probabilmente direbbero che, appunto, volevo attirare attenzione su di me da parte dei miei genitori, impegnatissimi col negozio e con tutte le loro attività. E quindi ero proprio terribilino (non come adesso che sono un amore). Non so se questa disamina sia giusta: anche adesso cerco di attirare l’attenzione, ma invece dei capricci mi invento tante altre belle cazzate. Beh si in fondo sono sempre rompicoglioni, ma in modo forse più gradevole. Ma torniamo a bomba all’argomento del post: come vivevo a Brallo quando ero bambino?

Dunque: per prima cosa mi svegliavo, colazione con latte e pane secco (abitudine datami da mia madre che mi piaceva molto più del latte coi biscotti. Quelli li lasciavo per il tè). Poi preparavo la cartella e andavo a scuola. Si, avete letto bene: per prima cosa non esistevano proprio gli zaini, e seconda cosa la cartella la preparavo al mattino e mai, ma dico mai, la sera prima, e così ho fatto per la mia (ahimè lunga) carriera scolastica. Il tragitto era breve, la scuola era a fianco a casa. Era stata appena costruita, da piccino ricordo vagamente la vecchia scuola, che è stata abbattuta per far posto a questa grande costruzione con due piani di aule (piano terra elementari e primo piano medie) e sotto addirittura la palestra e il cinema. Se non ricordo male siamo stati la seconda classe ad entrare in prima in quella scuola. In prima elementare avevo come maestra l’Andreina (detta "signora Andrea") e poi la signora Tordi (detta "mia mamma"). Sul fatto che non studiassi un cazzo penso che ve l’ho già spiegato tante volte. (Si, dai, "cazzo" ormai è una parola sdoganata dal turpiloquio, e poi già gli stilnovisti scrivevano ben peggio.) Comunque mi piaceva abbastanza andare a scuola, non fosse per altro che passavo le giornate spesso da solo e quindi almeno al mattino avevo compagnia. C’erano le "multiclassi", cioè eravamo divisi in due gruppi, relativi alle due maestre. Per esempio quando ero in prima la classe era composta da quelli di prima e di seconda. Quando ero in seconda da quelli di prima, seconda, e forse quinta. Quindi i compagni di classe cambiavano spesso. E come è possibile gestire una cosa simile? Beh, mentre la maestra faceva il dettato a quelli di prima, quelli di seconda facevano i pensierini e quelli di quarta gli esercizi di matematica, e via a rotazione. Comunque mi sono preso un discreto numero di mazzate da mia mamma, che aveva facoltà di darmele in quanto maestra (adesso la arresterebbero) e in quanto mamma, quindi razione doppia. Dietro di me in quanto a mazzate prese c’era solo l’Enrica, che comunque aveva una piazza d’onore per schiaffoni e bacchettate prese.

Finita la scuola arrivavo a casa e aspettavo che fosse pronto da mangiare. Abitavo, dove abito tuttora, sopra al negozio. La casa era relativamente recente, visto che è stata costruita quando sono nato io. Lì c’era una villetta sulla collinetta. Prima mio papà ha fatto sbancare davanti, sulla strada, per costruire quello che adesso è la parte davanti del negozio. Sopra, invece del tetto, c’era un grande terrazzo. Quando gli affari si sono messi ad andare bene, sul terrazzo è stata costruita l’attuale casa, e, una volta pronta, la villetta retrostante è stata abbattuta, la collina sbancata, per costruire l’attuale parte dietro del negozio e della casa. Quindi, in definitiva, da piccolo avevo imparato a distinguere la casa "vecchia" da quella "nuova", la cantina "vecchia", dove c’era la caldaia a nafta, da quella "nuova" dove si sciolinavano gli sci, il solaio "vecchio" pieno di cianfrusaglie" da quello "nuovo" pieno di cianfrusaglie. In effetti non mi chiedevo come mai dal solaio vecchio a quello nuovo si dovesse passare da una finestra e non da una porta! 

Al pomeriggio facevo i compiti e studiavo. Ah ah ah no, a parte le battute: uscivo a giocare. O con qualche amico (quei pochi, rari, bambini di Brallo) o da solo. Giravamo, esploravamo, andavamo in bici e d’inverno in bob. Oppure giocavamo alle gare coi tappi di bottiglia mia grandissima passione), oppure a giochi dove impersonavamo qualcuno, tipo "il ristorante", "la televisione" (altra mia grande passione, avevo addirittura un quadernetto dove segnavo tutti i dati che riuscivo a recuperare delle emittenti: nome, sede, canale uhf, ecc). Tutti i ragazzetti di Brallo avevano la bici, andava di moda quella col sellino lungo, la mitica "Saltafoss". Io dopo anni di richieste ho ricevuto….una Graziella. Lì per lì mi sono incazzato, poi avevo una gran vergogna e infine mi sono detto: "ma chi se ne frega, intanto sono in bici !!!".

A volte andavo con mia mamma, visto che mio papà o era in negozio o era da qualche parte a cercare affari. E quindi in qualche appartamento da sistemare, su qualche tetto a sostituire tegole, a Pregola a zappare l’orticello vicino al pozzo, in qualche solaio o qualche cantina, avendo a che fare con assi di legno, scaldabagni, mobili da spostare, tubi da riparare, finestre da aprire o chiudere… "portami la marassa", "vai di sopra a vedere se esce acqua", "andiamo a prendere le fragole", ecc. nei primi 14 anni della mia vita ho maneggiato più attrezzi io di un ferramenta: roncole, falcetti, chiavi inglesi, brugole, tenaglie, seghe, cacciaviti di ogni sorta, martelli e chilometri di fil di ferro, l’arnese che serviva e risolveva qualsiasi situazione. Sempre in viaggio con l’insostituibile Fiat 500 del 1970. Era la mia seconda casa. D’altronde la lasciavamo sempre aperta parcheggiata a fianco a casa, mentre casa mia era sempre rigorosamente chiusa a chiave (e io non ho avuto la chiave fino a circa 18 anni) e quindi, specie quando pioveva, mi riparavo nella 500, tra una corda di tapparella, una pinza, un cric, dello spago e attrezzi vari. Il mio preferito era la marassa, che in italiano è la roncola, perché in un attrezzo di medie dimensioni racchiudeva una discreta potenza di taglio. Se succedessero oggigiorno queste cose, tipo girare in auto con questi attrezzi prima ti arrestano per detenzione illegale di armi, poi per sobillazione di minore e infine per terrorismo. Si, mia mamma era decisamente una pericolosa criminale.

A volte mi mandavano a fare la spesa. A Brallo c’erano ben 4 negozietti che vendevano un po’ di tutto (ora sono 3), ma in base a cosa dovevo prendere privilegiavamo un posto piuttosto che un altro, per abitudine e per andare così un po’ da ciascuno. Se era per il pane, la focaccia, i biscotti, la pasta o cose per la scuola (quaderni, penne, ecc) si andava "dalla Lina" (cioè al Panificio MGT, attualmente pnificio "Franco e Silvana" ), storica amica di famiglia. Per altre cose (dal vino ai detersivi per il bucato a mano) si andava "dalla Pierina", ovvero in tabaccheria, sotto i portici, dove adesso c’è Nado. Per la carne mi mandavano "da Giulio" (che poi era il marito della Pierina e quindi il negozio era lo stesso, ma il macellaio era lui) oppure "da Enzo", della salumeria "Normanno" in piazza. Ricordo quando, in tempi decisamente più recenti, avevano ingrandito il negozio con un minimarket dove mi stupivo di trovare anche i CD vergini ! Per la frutta, verdura e le cose più "strane" (e per le immancabili bombole di Butano per cucinare) si andava "dai Nobili", che in realtà si chiamano Nobile di cognome, ma venivano pluralizzati, essendo tre fratelli. Quando hanno rilevato anche la tabaccheria (dopo Giulio e Pierina -i proprietari- e Alberto e Grazia), per distinguerli in casa mia si diceva "dai Nobili su per la salita" e "dai Nobili sotto i portici".  Ma torniamo al discorso, vale a dire quando io avevo circa 10 anni.

Finito di giocare, andavo a casa a fare merenda: tè oppure pane e nutella o pane e salame (o coppa, o prosciutto cotto, con il classico "formaggio coi buchi" vale a dire l’Emmental.) e poi magari giocavo in casa (coi lego, o cono altre mille cose che mi inventavo io, bastava andare in solaio per tornare con qualcosa di insolito). 

Alla sera un poco di cena: di solito quello che si era avanzato dal pranzo: pasta, riso, polenta, quello che c’era. E magari un bistecchino, e un po’ di mela. Poi se c’era qualche bel film guardavo la tele, sul divano, probabilmente con addosso la coperta fatta con le cinture di lana (si, ho scritto giusto, cinture di lana, ma è troppo complicato da spiegare) che ho tuttora. Oppure uscivo con mia mamma al bar (novanta su cento era l’Appennino Pavese) dove lei prendeva l’immancabile caffè. Ah e compiti? E lo studio? Beh, vi ho già parlato delle mazzate, no? No, in realtà a volte i compiti li facevo (studiare invece lo facevo più raramente), ma avevo sempre l’arroganza di pensare di potermeli sbrigare in poco tempo. Poi quando era mattino e non li avevo fatti….paura!

A me piaceva molto abitare lì e mi chiedevo quanto fossero sfortunati quei bambini che vivevano sempre chiusi in casa, oppure nel cortile, oppure in qualche modo sempre controllati dai genitori e costretti a stare in un perimetro ben definito. Non potevano girare nei prati, nei boschi, trovare scorciatoie, arrampicarsi sugli alberi, ecc. Infatti quando veniva a Brallo in villeggiatura, facevano tutte queste cose e si sentivano felici. Io, che potevo farle tutto l’anno, mi rendevo conto di essere proprio fortunato. Anche se spesso ero costretto a giocare da solo. Ma quello non mi è mai pesato troppo. Forse è per questo che ci ho fatto il callo (ma non l’abitudine). Ricordo che nei primissimi anni della mia vita ho abitato per certi periodi a Milano dagli zii. Era una vita tranquilla e serena, anche se molto routinaria. Ricordo che, appunto, o stavo in casa, o andavo per negozi con lo zio e la zia, o solitamente nel cortile, io e qualche altro bambino….da soli ! Roba che adesso sarebbe da fare accapponare la pelle. Quando la zia Iolanda mi doveva chiamare, lo faceva dalla finestra e io diligentemente andavo su in casa. E non solo: quando lo zio Renzo tornava dal lavoro (faceva il taxista), pranzava e poi passava il tardo pomeriggio giocando a carte nel bar sottocasa. Quando era pronta la cena talvolta la zia mi mandava a chiamare lo zio. Era l’unica occasione in cui mi era permesso uscire dal cortile…per entrare nel bar subito a fianco. Andavo nella sala dietro, piena zeppa di tavoli, uomini e fumo. Lo zio fumava la pipa. In mezzo a quella nebbia lo cercavo con gli occhi quasi strizzati, mi sentivo tronfio del mio importante compito di dover fare una commissione "da grandi", impettito nella mia salopette di velluto a coste grandi. "Zio, la zia ha detto che è pronto". Talvolta lo aspettavo, talvolta lo precedevo perchè doveva terminare la partita, e tornavo su da solo. A tre e dico 3 anni. A Milano. Chiaro, all’epoca di baluba non si era neanche mai sentito parlare. Ricordo quella volta che lo zio mi ha portato in piazza duomo, a carnevale, e mi ha comprato addirittura i coriandoli! La piazza piena di gente allegra, che dava il granoturco ai piccioni per fare le foto. Che bella Milano, dove la gente parlava di "barlafùs" e te diseva "Te sè prpri un pirla, capiss nagott". Visto? sono partito a parlare di Brallo per poi finire a parlare di Milano. D’altronde, il mio cuore è al paese natio, ma ci sono dei luoghi che sento ugualmente miei, come Pregola, Milano, Londra, Camogli…

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