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Lo so, cari i miei quaranta lettori, che è un po’ che non scrivo con continuità. Il fatto è che qui a Brallo la connessione con chiavetta è di una lentezza estenuante e quel poco di banda che riesco a spremere lo uso per leggere le email e fare dell’altro più strettamente necessario, dedicando poco tempo alla scrittura del blog.
E’ stato un agosto parecchio caldo, soprattutto ora nella sua parte finale. Ho perso la festa della polenta di Cortevezzo. Alla sera sono sempre stanco e devo trovare un valido motivo, nonchè della valida compagnia, per perdermi quell’oretta di relax in casa all’ora di cena. La festa della birra di Corbesassi si è confermata come una bella festa, e dire che non è organizzata da moltissimi anni. Complimenti quindi ai ragazzi che se ne occupano.
Anche quest’anno non ho ancora trovato un paio di ore di tempo per andare al Trebbia. Pensare che quando gestivo il Castello Malaspina (e quindi avevo le giornate libere) ci andavo quasi ogni giorno. Però non mi sono fatto mancare quelle microgite di mezz’ora, giusto per prendere un caffè o un gelato: Piani del Lesima, Fragolina, Pian del Poggio, Passo Penice.
La vendita in negozio funziona più o meno come a Voghera: bisogna lavorare di più, sbattersi di più, per riuscire perlomeno a guadagnare un po’ meno, altrimenti si guadagnerebbe molto ma molto meno. Dicono che è la crisi. Boh. Gli alberghi nelle località di villeggiatura sono pieni, gli outlet strabordano… quindi non so se questa crisi esiste veramente o se è solo pompata dai media che ci vogliono spaventare.
Sono stato anche in due paesi che non avevo mai visitato: Ferriere in provincia di Piacenza (carino, pieno di gente, un bel paesone) e Santo Stefano d’Aveto in provincia di Genova (sembra di essere sulle dolomiti).
Un saluto a due assidui lettori: Matteo & Maria Evelina.
Monte Lesima 1724 m.s.l.m. |
di Rita Rebolini
Più giù c’è il paesino di Pietranatale. Il suo nome è molto eloquente: una pietra di dimensioni enormi, sola soletta, se ne sta lì in mezzo ai prati. Non si sa bene da dove venisse, né da che parte fosse rotolata. Le case si sono aggrappate attorno a lei, in un girotondo, quasi volessero proteggerla. Veramente è lei che con la sua stazza, la sua compattezza e la sua solida posizione, raccoglie a sé tutte quante le abitazioni piccole e basse rispetto al suo trono. A causa dello spopolamento della montagna, il paese rimase con pochissimi abitanti: migrazioni di massa di persone in cerca altrove di lavori più redditizi. La pietra divenne malinconica perché non sentiva più il vociare dei bambini, né lo stridolio dei carri che trasportavano legname, fieno e frutta.
Un giorno, con la coda dell’occhio, vide passare sulla strada grande alcuni camion carichi di tronchi. Appena più in là erano sorti dei capannoni dai quali provenivano rumori diversi, nuovi. Dentro ai capannoni frinivano motoseghe elettriche, punzoni per spaccare la legna, pulegge per trasportare automaticamente i vari manufatti.
L’enorme pietra sospirò. Ci mise quattr’occhi per osservare quel viavai di TIR che giungevano persino dalla Jugoslavia, talmente lunghi da dover fare varie manovre per guadare quelle curve di strada a gomito, carichi di lunghi e grossi tronchi d’alberi. Talmente immensi che era inverosimile immaginarseli in piedi nei loro boschi.
Ora la mastodontica pietra strizza l’occhiolino, si striglia i baffi, si dà un buffetto sulla guancia e sorride. “Scarpe grosse e cervello fine”. La malinconia è sparita: l’industria ha sopperito all’agricoltura.
E la storia continua…
Brallo: i suoi dintorni di Rita Rebolini
Oggi inizierò a mostrarvi i paesini che stanno ad est di Brallo. Si sa, il giorno inizia ad est, dove spunta il sole. Prima sta l’alba, quella fioca luce che dirada le fitte tenebre della notte e man mano le allontana così bene da poter osservare la vallata sotto una bella schiarita. Dapprima spunta in cielo il chiarore del sole, tanto da far sbiadire quello delle stelle e mostrarci uno squarcio di “infinito” impenetrabile col nostro piccolo ragionevole cervello. Poi i raggi: pochi, chiari, prorompenti su quel cielo mattutino che non è né grigio né azzurro. Infine il bel faccione del sole, non ancora abbagliante, che si lascia guardare così tondo, così pacioccone. È un’emozione. Il cuore ti si allarga, prendi coscienza del tuo essere, del tuo mondo, dell’universo che ti circonda e ti fa chiedere se gli uomini sanno che il sole è vita per tutto il mondo, se si accorgono che il suo sorgere significa un giorno di vita da godere in qualsiasi forma, se sanno che è un dono riconducibile a Dio.
Ora nel cielo non è ancora tutto chiaro, ma quei minuscoli uccellini che stanno sulle piante già cinguettano, un mormorio solo, un inno, un canto al Creatore e non importa se non hanno di che beccare. Poi la luce si diffonde. Luccicano le collinette, i versanti dei monti, appaiono i paesini così belli, così assonnati, così caratteristici da fare seriamente invidia alle invivibili città.
Vi voglio parlare di Pieve. Si dice che si mangi bene e che bene vada anche nel portafoglio. Su un pianoro, in mezzo a prati e boschi, c’è una rovere secolare, grande, grossa, fronzuta. Ogni anno per la festa della Madonna della Guardia (29 agosto), nel periodo migliore delle vacanze e dei raccolti, ai pedi di questa ultracentenaria pianta si celebra la Santa Messa. Accorre gente da tutte le vallate circostanti. È un rituale al quale ciascuno tiene a presenziare. Mentre il celebrante, senza alcun microfono, con paramenti per il minimo indispensabile, prosegue nelle sue funzioni religiose davanti alla statua della Madonna, si possono scorgere bimbi seduti sull’erba, in silenzio assoluto. Nessuno si permette qualche capriccio, anzi si sta lì compiti per tutto il tempo della Santa Messa. Uomini e donne appoggiati ai tronchi degli alberi, statualmente rivolti alla grande pianta, trovano un momento di pausa per poter entrare con tutta l’anima a percepire l’emozione di trovarsi lì, anche in mezzo a gente sconosciuta, e a formare con la mente un magico pensiero di umiltà e fratellanza. Più in là, in bella mostra, la fila dei sindaci (anche in versione femminile), venuti come i Magi da oriente e da occidente. Con le loro sciarpe tricolori, in rappresentanza dei loro concittadini, pur senza parlare, stanno lì a porgere il loro omaggio alla Madonna. A fine cerimonia belli e brutti, piccoli e grandi, come si suol dire, tutti in fila partecipano alla lunga processione che riporta la statua celeste nella nicchia della propria chiesa. Ora la vecchia rovere resta lì, nuovamente sola. Scuote le fronde, chiama a sé tutti gli uccelli e dice loro: “cantate!”
…continua da ieri la storia della chiesa di Pregola.
Il campanile. Il campanile attualea torre fu costruito nel 1934 per sostituire il vecchio campanile "a vela".
Il cimitero. Il primo cimitero era vicino alla chiesa, sul cocuzzolo del monte. Alla fine del 1600 gvenne costruito un nuovo cimitero vicino alla chiesa, ma nel XIX secolo ne fu costruito un altro, quello tuttora in funzione, lontano dal centro abitato.
Sempre tratto dallo stesso libro un piccolo paragrafo dedicato alla chiesa di Brallo:
Chiesa succursale di Brallo. Brallo, diventato capoluogo di comune nella prima metà del XX secolo si trovava sprovvisto di un seppur minimo luogo di culto. Forse influì il fatto che lo stesso paese era ed è diviso fra due parrocchie: la parte ad est dipende dalla parrocchia di Colleri, quella ad ovest è sotto la giurisdizione di quella di Pregola.
Il richiamo turistico che ebbe il territorio dopo la costruzione della strada intervalliva, il benessere che si stava sviluppando dopo la guerra e l’aumento delle auto private che favorì gli spostamenti famigliari, suggerì al parroco don Luciano Faravelli di far costruire la chiesa a Brallo.
Fu costituito un comitato promotore che affiancò il parroco nell’espletare le pratiche burocratiche e per la ricerca dei fondi necessari, composto da Carlo Bottiroli, Angelo Cavanna, Lino Gualdana, Pietro Ravetta e Siro Tordi. Per la progettazione fu scelto l’architetto Enrico Decorato di Milano, il quale presentò una proposta per una chiesa moderna in stile alpino. I lavori iniziarono le 1961, la chiesa fu ultimata nel 1965 e nel 1969 fu benedetto e consacrato l’altare.
(notadiFabio: per altre info su questa chiesa clicca qui)
Fiorenzo Debattisti ha raccolto in un bel volumetto, intitolato "Nascita di Pregola e dell’antica chiesa di Sant’Agata" le sue ricerche sulla vecchia chiesa di Pregola. Queste ricerche hanno portato alla luce alcune interessanti storie della nostra parrocchia. Eccone alcune.
La chiesa è stata costruita dai monaci del monastero di S. Colombano di Bobbio, fondato dal santo irlandese nel 614. Già nel 622 il monastero ricevette una cospicua donazione di terreni da parte dei regnanti Longobardi, tra cui il territorio di Pregola. Per trovare citata la chiesa di S.Agata bisogna aspettare l’anno 862. La chiesetta era sul cucuzzolo della montagna e il paese dovrebbe essere sorto intorno ad essa.I resti di quell’antica struttura sono tuttora visibili sotto alcuni metri dalla vetta in posizione sud-evst. A pochi metri vi si può trovare il fonte battesimale. L’unica mappa che riporta la chiesa risale al 1766, rinvenuta nell’Archivio di Stato di Torino.
Quando i marchesi Malaspina si insediarono a Pregola, costruirono anch’essi il loro castello sulla stessa montagna già occupata dalla chiesa e dal cimitero. Io sono andato tante volte da ragazzino su quella montagnetta, mentre mia mamma sistemava l’orto poco distante dalla Fiat 500 rossa parcheggiata nel prato, e ho sempre creduto che i resti fossero quelli del castello. In realtà, molto probabilmente (visto che non sono rimasti i ruderi), l’antico castello fu costruito dove adesso c’è la parte alta del paese. Un altro fatto non documentato ma verosimile è quello che vede la chiesetta incendiata durante l’assedio e la distruzione del castello da parte di Gian Maria Malaspina (anche se in questo post si dice che era il 1571 e il Malaspina in questione si chiamava Giovanni, invece in questo post è confermato il tutto…). Infatti nel 1576 la Diocesi di Tortona ordina di costruire una nuova chiesa. Ordine che venne disatteso per lunghissimo tempo a causa delle poche risorse economiche del paese.
Nel frattempo era sorto un oratorio, dedicato a S.Rocco, voluto probabilmente dai Malaspina, a poca distanza dalla casaforte fatta costruire copi ruderi del vecchio castello, in posizione più pianeggiante ai piedi della montagna. Verso la fine del XVII secolo questo oratorio fu modificato, ampliato, fino a divenire la nuova chiesa di S.Agata. Pare che i parrochiani non fossero entusiasti di questa soluzione, forse per non oltraggiare la tradizione della vecchia chiesetta, forse per ritrosia verso i marchesi che pretesero dei privilegi in cambio del vecchio oratorio.
La chiesa fu più volte aggiustata e mantenuta, ci furono lavori al tetto e alla sacrestia e, nel 1968, fu demolito l’altare esistente per sostituirlo con uno nuovo rivolto all’assemblea secondo lo spirito della riforma liturgica.
(fine prima parte, domani la seconda)
Su Youtube c’è il canale Oltresentieri, dove ci sono, tra gli altri, numerosi video di riprese effettuate nella zona di Brallo e dintorni. Eccone qualcuno:
Ormai non la fermo più: mia mamma è diventata una blogger! Ecco il suo nuovo articolo:
A nord inizia la Valle Staffora (col suo bacino delle acque) che scende con pendii rocciosi e scoscesi verso Varzi. A sud la vallata del torrente Avagnone, aperta e meno ripida, porta le sue acque nel Trebbia. Divide le due valli il Passo del Brallo. Forse il nome starebbe a significare il vento pungente che sempre spira da una vallata all’altra e che ad ogni passante farebbe pronunciare: “Brrr Brrr”.
Si narra che vi sia passato anche Annibale quando trasferì l’esercito da Cima Colletta al Monte Penice.
Già ai tempi dei sentieri del sale vi erano una bellissima fontana rigogliosa di acque cristalline e due casupole arroccate su un pendio: erano abitate dai Moscardini, i pionieri del luogo che più in basso annotava anche una “baracca” adibita ad osteria. A quei tempi, sui vari passi delle nostre montagne, esistevano ricoveri di quel genere che potevano prestare sostegno ai tanti passanti che a piedi, e magari carichi di merce, andavano da una valle all’altra.
Poi venne la strada!
Dopo il 1930 la camionabile (ferma a “Costa Mora”) fu prolungata fino a Ponte Organasco allacciandosi così alla statale 45 Piacenza – Genova.
Il Passo del Brallo cambiò volto: dai paesini vicini vennero nuovi abitanti. Da Bralello scesero gli Alpegiani e costruirono un grande albergo; i Normanno trasformarono quella catapecchia di osteria in un caseggiato con tanto di muri in pietra, di porte e di finestre. Poi fu la volta di altri trasferimenti dalle varie frazioni. La strada, non più sentiero, ma camionabile, fece appetito a molti. Da Valformosa vennero i Cavanna e i Frattini, da Barostro i Zanardi. Cominciarono le prime costruzioni. Nacquero alberghi, ristoranti, negozi e, in pineta, anche un dancing. Da Corbesassi vennero i Buscone e i Benedini. Aprirono i battenti le officine meccaniche e la falegnameria.
Da Ponti i Tordi costruirono case e negozi e reclutarono clienti da mezz’Italia. I Nobile aprirono negozi di generi alimentari. Da Colleri i Gualdana vennero ad impiantare il forno per il pane e focacce. Da Selva i Balconato allestirono la lavasecco e l’ufficio per le assicurazioni. Negli anni successivi queste immigrazioni continuarono ed il paese crebbe parecchio. Sul passo si installarono: il medico condotto, il farmacista, il veterinario, l’ostetrica, la maestra, il geometra, il calzolaio, la pettinatrice, il collocatore, il sarto, l’orologiaio, il barbiere, la bidella, e altri.
C’è stato un periodo, di alcuni anni, nei quali ha funzionato anche un distaccamento dei Carabinieri.
Brallo diventò capoluogo comunale. La logica porta a notare come in quel periodo si pensò di mettere in piedi l’edificio del municipio, quello delle scuole, la chiesa e venne realizzato un impianto di risalita per la pratica dello sci.
Il paese che non c’era, ora c’è.
Nel 1962 si tenne al Brallo un simposio per analizzare l’aria. Fu constatato che, essendovi molte pinete nei dintorni ed essendo il posto vicino al mare (in linea diretta circa 30 chilometri), il misto di aria così analizzata risulta ottimale, specie per chi soffre di bronchiti.
Anni di progresso, anni di benessere, nugoli di gente che sale al Brallo, nonni e bambini che vengono a prendere l’aria buona.
I residenti costruiscono, affittano, c’è lavoro per le imprese edili, come quelle dei Ravetta,dei Pericotti e dei Normanno.
Si aprono negozi di pelletteria, di alimentari, di elettrodomestici, di cartoleria e di souvenir. Si rimodernano le strutture, si cambiano arredi, si creano pizzerie, gelaterie, sale giochi. Al Brallo ora c’è un commercio fiorente. Aprono i battenti anche la palestra e il cinema e mettono le radici persino due banche.
Passano gli anni. Inizia lo spopolamento della montagna, i giovani (anche laureati) cercano lavoro altrove, le famiglie si diradano, non ci sono più bambini. Le scuole delle frazioni, una dopo l’altra, chiudono. Persino a Corbesassi e a Colleri dove le insegnanti erano due. L’epopea comincia la discesa: ora non tutto funziona come da prospettiva. Chi ne risente per primo sono le discoteche e gli altri centri ludici. Oggi a peggiorare le cose è giunta anche la crisi generale. Ciò nonostante, i longevi abitanti del Brallo, come l’edera, sono abbarbicati alla loro montagna, cercano in tutti i modi di affrontare, alla meno peggio, la situazione. Hanno istallato un distributore di benzina (con self-service), hanno riordinato la piazza centrale, hanno sistemato il gioco delle bocce, hanno provveduto alla realizzazione di campi da calcio e da tennis. La Pro Loco si fa in quattro ad organizzare sagre e ricorrenze, nonché indire dibattiti culturali, balli e cene.
Insomma, cercano in tutti i modi di non far mancare quelle infrastrutture, anche nuove, affinché possa funzionare il centro tennis e il centro benessere.
Il paese che non c’era, ora c’è.
Visitatelo: fatelo a girotondo, vi accorgerete che è il paese più bello del mondo.
Rita
Tratto (a volte liberamente tratto) da “I Malaspina di Val Staffora”, di Guido Guagnini, 1967
(seconda parte)
Esistono due rami. Un primo ramo va fatto risalire a Carlo Malaspina che sposò nel 1697 Lucrezia, figlia del marchese Giuseppe Malaspina di Godiasco, dal quale ereditò alcune porzioni feudali nonché l’elegante, antico palazzo Malaspina di Godiasco, il cui portale reca scolpite in arenaria la leggenda delle origine malaspiniane. Dall’epoca del matrimonio abitò sempre in Godiasco, ove pure dimorarono i suoi discendenti. Carlo ebbe un solo figlio, in seconde nozze, Corrado. Questi morì in giovane età ed ebbe vari figli: Guglielmo, che trovò morte tragica perendo annegato nello Staffora in piena, Giovanni e Riccardo. Quest’ultimo ebbe come figli Giovan Maria e Guglielmo, celibi, e Vittorio che a sua volta ebbe un solo figlio, Corrado. Come vedete ci sono nomi ricorrenti nella genealogia dei Malaspina. I figli di Corrado morirono in giovanissima età ad eccezione della quartogenita, Maria Teresa, nata nel 1891, che si fece suora ed è tuttora vivente (in realtà, in base alle mie fonti, è morta negli anni ’80 del secolo da poco terminato. Il libro del Guagnini è del 1967).
L’altro ramo della famiglia fu originato dal marchese Giuseppe nel XVII secolo. Giuseppe fu padre di Baldassarre che ebbe a sua volta un figlio, Antonio, che abitava in Pregola nel signorile palazzo della sua famiglia e che era in ottime condizioni finanziarie e che, anche dopo la soppressione dei feudi, aveva conservato ampi possessi fondiari in valle Staffora e in valle Trebbia; possedeva inoltre il bel palazzo di Varzi, ora sede del Municipio.
Il marchese Antonio ebbe due figli: Teresa e Baldassarre, nato nel 1826, che sposò Teresa Muzio di Varzi e che fu padre di Antonio e Rodolfo. Antonio, celibe, morì in Varzi nel 1923. Rodolfo, avvocato, aveva sposato la sua servente ed amante perché fu minacciato dai parenti di lei non volendo regolarizzare la sua posizione, ma non ebbe figli e morì l’anno dopo improvvisamente. Fu l’ultimo maschio dei marchesi Malaspina di Pregola.
Il castello antico di Pregola sorgeva sulla rupe posta all’ingresso del paese e fu distrutto nel 1571. Con in materiali ricavati si costruì l’attuale palazzotto, impropriamente detto castello. Nella sala principale del palazzo cinquecentesco vi è un bel camino scolpito e sopra di esso si vede il grande stemma dei marchesi Malaspina di Pregola che risulta così inquartato: nel I e nel IV di rosso, alla aquila bicipite coronata d’oro sulle due teste; nel II e nel III d’azzurro, allo spino secco, sorgente da una montagna di nero, afferrato da destra dal Leone Bianco rampante in posizione eretta e coronato d’argento. (Purtroppo è andato distrutto)
Pregola assume per lo storico un’importanza eccezionale perché può essere presa come archetipo del costituirsi del paese signorile della valle Staffora. Anticamente il feudo si estendeva molto verso mezzogiorno e comprendeva torri e castelli che le numerose divisioni fra i membri della famiglia ridussero sempre più, finchè cessato di essere marchesato autonomo, nel 1879 fu aggregato di fatto al marchesato di Santa Margherita.
Pregola fu senza dubbio la tappa del primo affacciarsi dei Malaspina sulla valle Staffora, considerata come il solo itinerario rapido per raggiungere le fertili pianure del Po. Pregola fu scelta come sede propizia a guardia del valico, con funzioni di controllo e con diritto di pedaggio, fonte prima della ricchezza del signore.
Tratto (a volte liberamente tratto) da “I Malaspina di Val Staffora”, di Guido Guagnini, 1967
(prima parte)
In primis c’era la famiglia nobile dei cosiddetti “Obertenghi”, così chiamati dall’illustre capostipite Oberto. Da questa famiglia ne discenderanno altre altrettanto illustri, come quella dei Marchesi di Massa-Parodi, di Massa-Corsica, dei Pallavicino, dei Lupi, dei Cavalcabò, dei Marchesi d’Este e, ultimo ma non ultimo, dei Malaspina. Questi ultimi discendono da uno dei figli di Oberto, vale a dire Oberto Obizzo I. Lui e i suoi discendenti si localizzarono tra gli appennini tra Genova, Tortona e Piacenza, nelle valli del Trebbia e dello Staffora, per tornare più tardi in Lunigiana, estremo lembo della Liguria Orientale, per rivendicare i diritti dei loro avi. Probabilmente questi primi progenitori dei Malaspina fissarono il loro centro nella sicura rocca di Oramala, in alta valle Staffora. Pronipote di Oberto Obizzo fu Alberto, detto “Malaspina”.
Sull’origine di tale soprannome, poi diventato nome ufficiale della casata, sono stati scritti fiumi di inchiostro. C’è chi sostiene addirittura che non fu assegnato ad Alberto, ma che fosse già in uso ai suoi avi. Questi nomignoli non erano certo loro prerogativa, visti i soprannomi Pelavicino (primo nome dei Pallavicino), Ribaldo, Malapresa, Malnipote, Iniquità, dati ai signori di quei tempi, che spesso facevano della rapina il loro mezzo per ottenere denaro dai sudditi e dai viandanti.
Il figlio di Alberto fu Obizzo, grande figura si signore feudale. Fu difensore di Tortona nel 1155, per cui la città gli dedica oggi una piazza, e poi ottenne dall’imperatore Federico Barbarossa un diploma di investitura feudale e assegnazione di territori. Questo importante diploma è la prova che i Malaspina dominavano in Lunigiana (nelle odierne province di Massa Carrara e La Spezia), la valle Staffora da Godiasco a Brallo, al Penice, l’alta val Curone, la val Borbera e alcuni luoghi di pianura nell’Oltrepo Pavese.
Fu nel 1221 che la famiglia si divide in due rami. Corrado sceglie come sede Mulazzo e mantiene lo stemma di famiglia, consistente in uno spino secco. Obizzino sceglie come sede Filattiera e adotta come stemma uno spino fiorito. Sia una discendenza che l’altra ebbero destini molto confusi. A quei tempi non era più uso mantenere intatti i possedimenti che quindi spesso venivano divisi tra i discendenti. Questa è stato uno dei motivi che hanno diminuito la forza della famiglia Malaspina. Quando si tentò di porvi rimedio istituendo le primogeniture fu troppo tardi. E ragione di debolezza e dissolvimento furono anche gli antagonismi, le discordie e le fazioni che tennero spesso divise le famiglie fra di loro e talora anche i membri di una stessa famiglia.
(continua domani)
Ospito sul mio blog un articolo dedicato all’indimenticato don Mario Grandi scritto da Maria Teresa Rebolini, detta Rita, mia mamma.
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Nell’aria c’è odor di Natale: noi di una certa età ce lo raffiguriamo ancora col presepio, la tavola imbandita e un pensiero per quel piccolo Gesù, così povero, così sconosciuto, da far tenerezza.
Al Brallo c’è la chiesa nuova con vetrate e spazio per accogliere tante persone. Purtroppo, mancanza di vocazioni, quest’anno la chiesa resta fredda, inerte, chiusa con sommo dispiacere di quelle donnette che per il Natale si inerpicavano sui pendii scoscesi e volti a mezzogiorno, per poter reperire il muschio e preparare un bel presepio in chiesa, orgoglio del paese.
Noi, gente di una certa età, andiamo volentieri a rivederci il passato: ai tempi del nostro compianto Don Mario. Lo incontravi a Pregola sulla via che porta al cimitero con breviario e il fido cagnolino. Si fermava volentieri a parlare con chi incontrava, aveva una parola buona per tutti e risolveva ogni problema dei suoi parrocchiani con l’aiuto che invocava da Dio. La sua fede traspirava da ogni suo gesto. A me che avevo espresso la mia preoccupazione ed anche un po’ di malumore per una faccenda di esproprio, disse: “Non disperi signora, le cose non vanno mai come vogliono gli uomini, bensì come vuole Dio”. Ve lo voglio proprio dire, ho constatato (dopo) che quella frase si era avverata.
La forza di Don Mario è stata la sua umiltà e la sua obbedienza ai superiori. Più volte fu chiamato a prestare la sua opera altrove, ma poi lui tornava ancora a Pregola e si presentava ai parrocchiani, quasi volesse scusarsi, loro che invece dimostravano il proprio entusiasmo per il suo ritorno.
Ed è tornato anche per l’ultima dimora, si è unito ai suoi cari genitori ed è li ancora una volta a disposizione di chi ha bisogno il suo aiuto.
Come dal bozzolo esce una bellissima farfalla e vola via, così l’anima di don Mario è volata in alto, tanto in alto per poter, ancora oggi, proteggere la sua gente. Si chiamava Grandi di cognome ed è stato grande di animo, di fede, di comprensione, di carità. Ancora oggi, noi di una certa età, gli vogliamo bene.
Rita
Tratto da “Brallo di Pregola ESTATE INVERNO” di Alessandro Disperati e Mara Vago, 2003
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Un po’ di storia
La denominazione Brallo di Pregola è alquanto recente (prima il comune si chiamava "Comune di Pregola", poi avrebbero voluto fare "Comune di Brallo", infine hanno optato per "Comune di Brallo di Pregola", ndFabio), ma la storia di questo Comune è alquanto antica; tanto è vero che Pregola era già nota all’epoca longobarda, nel X secolo, quando faceva parte del Monastero di San Colombano di Bobbio. Fu Federico Barbarossa a cedere Pregola alla famiglia dei Malaspina: rimase in possesso dei marchesi sino alla fine del feudalesimo. L’abitato antico, con castello e Chiesa, sorgeva su uno sperone roccioso sovrastante l’attuale. Le notizie religiose di Pregola risalgono addirittura a prima dell’anno 1000. La Chiesa attuale è sorta nel 1600 sulle rovine del vecchio oratorio dedicato a San Rocco. Nel XIII secolo il feudo di Pregola passò per l’appunto in mano ai Malaspina che lo tennero sino al 1789 anno in cui fu incorporato nel marchesato di Santa Margherita. La strada che da Varzi sale al Passo del Brallo fu costruita a cavallo fra il 1909 e il 1914. In passato il Comune non si trovava a Brallo bensì a Pregola. Il municipio fu trasferito nella sede attuale il 31 marzo 1958. Lo stemma del comune, che è stato studiato dall’amministrazione comunale, ricorda nel castello, l’antico fortilizio posto sulle rocce del Brallo, nella corona marchionale il possesso che sulla Terra con tale titolo ebbero i Malaspina per oltre sei secoli.