Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare
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ARANCIO come tenersi per mano
ARANCIO come il becco di un gabbiano
ARANCIO quando volo sopra le nuvole con te
ARANCIO come i sogni quando sei con me
INDACO può essere il sentimento
INDACO è uno dei fiori che ti ho regalato
INDACO è il tramonto
INDACO quando appoggi la testa sulla mia
VERDE come un prato
VERDE è il mio sguardo quando ti vedo
VERDE è l’acqua pulita di un fiume
e VERDE è il semaforo del nostro amore
e poi GIALLO come il sole che ci scalda
GIALLO come… ricordi quel simpatico canarino?
GIALLO come le carezze che ti faccio
è proprio un bel GIALLO, GIALLO limone!
VIOLA come i pensieri
e VIOLA è anche il mirtillo
ma VIOLA è il nostro abbraccio
perché VIOLA è la consapevolezza di provare qualcosa di grande
AZZURRO come le onde del mare dove ti voglio portare
AZZURRO come il mistero dietro a un pensiero
AZZURRO come il cielo che è AZZURRO
AZZURRO è la mia gioia di stare con te
ROSSO è il bacio
perché ROSSO è il fuoco che brucia
perché ROSSO è fare l’amore
come ROSSO è il mio cuore
Nel mio mestiere o arte scontrosa
Praticato nella notte immobile,
Quando solo la luna infuria,
E gli amanti riposano insieme
Con tutti i loro affanni tra le braccia,
Io fatico presso un lume che canta,
Non per ambizione o pane,
O per la ruota e lo smercio d’incanti,
O per i palchi d’avorio,
Ma per i comuni salari,
Dei loro più intimi cuori.
Non per l’uomo fiero in disparte
Dalla luna che infuria io scrivo
Su queste pagine di spruzzi
Non per il morto arroccato
Con i suoi salmi e usignoli
Ma per gli amanti, le loro braccia
Cinte agli affanni dei secoli
Che non offrono lode o salari,
Né attenzione al mio mestiere o arte.
In my craft or sullen art
Exercised in the still night
When only the moon rages
And the lovers lie abed
With all their griefs in their arms,
I labor by singing light
Not for ambition or bread
Or the strut and trade of charms
On the ivory stages
But for the common wages
Of their most secret heart.
Not for the proud man apart
From the raging moon I write
On these spindrift pages
Nor for the towering dead
With their nightingales and psalms
But for the lovers, their arms
Round the griefs of the ages,
Who pay no praise or wages
Nor heed my craft or art.
DYLAN THOMAS
(Giorgio De Chirico – Melanconia di un uomo politico – 1938)
Se vuoi riempire la tua brocca,
vieni, oh vieni al mio lago.
L’acqua si stringerà intorno ai tuoi piedi
e ti sussurrerà il suo segreto.
Sulla sabbia è l’ombra della pioggia imminente,
le nuvole pendono basse
sopra il profilo azzurro degli alberi,
come i folti capelli sopra i tuoi occhi.
Ben conosco il ritmo dei tuoi passi,
essi battono nel mio cuore.
Vieni, oh vieni al mio lago,
se devi riempire la tua brocca.
Se vuoi startene oziosa e sedere indolente
e lasciare che la tua brocca galleggi sull’acqua,
vieni, oh vieni al mio lago.
Il declivio erboso è verdeggiante
e i fiori di campo sono innumerevoli.
Dagli occhi bruni i tuoi pensieri vagheranno
come uccelli fuori dai nidi.
Il tuo velo cadrà ai tuoi piedi.
Vieni, oh vieni al mio lago,
se vuoi sedere indolente.
Se vuoi lasciare il tuo gioco e tuffarti nell’acqua,
vieni, oh vieni al mio lago.
Lascia il tuo mantello azzurro sulla riva;
l’acqua azzurra ti coprirà nascondendoti.
Le onde si leveranno in punta di piedi
per baciarti il collo e mormorare ai tuoi orecchi.
Vieni, oh vieni al mio lago,
se vorresti tuffarti nell’acqua.
Rabindranath Tagore (রবীন্দ্রনাথ ঠাকুর, रवीन्द्रनाथ ठाकुर)
Dammi mille baci, poi dammene cento, (Catullo) |
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Io sono nessuno! Tu chi sei? Che grande peso essere qualcuno!
E. Dickinson |
ogni 5 secondi cannoni da assedio sventrare
spazio con un accordo tam-tuuumb
ammutinamento di 500 echi per azzannarlo
sminuzzarlo sparpagliarlo all´infinito
nel centro di quei tam-tuuumb
spiaccicati (ampiezza 50 chilometri quadrati)
balzare scoppi tagli pugni batterie tiro
rapido violenza ferocia regolarita questo
basso grave scandere gli strani folli agita-
tissimi acuti della battaglia furia affanno
orecchie occhi
narici aperti attenti
forza che gioia vedere udire fiutare tutto
tutto taratatatata delle mitragliatrici strillare
a perdifiato sotto morsi shiafffffi traak-traak
frustate pic-pac-pum-tumb bizzzzarrie
salti altezza 200 m. della fucileria
Giù giù in fondo all’orchestra stagni
diguazzare buoi buffali
pungoli carri pluff plaff impen
narsi di cavalli flic flac zing zing sciaaack
ilari nitriti iiiiiii… scalpiccii tintinnii 3
battaglioni bulgari in marcia croooc-craaac
[ LENTO DUE TEMPI ] Sciumi Maritza
o Karvavena croooc-craaac grida delgli
ufficiali sbataccccchiare come piatttti d’otttttone
pan di qua paack di là cing buuum
cing ciak [ PRESTO ] ciaciaciaciaciaak
su giù là là intorno in alto attenzione
sulla testa ciaack bello Vampe
vampe
vampe vampe
vampe vampe
vampe ribalta dei forti die-
vampe
vampe
tro quel fumo Sciukri Pascià comunica te-
lefonicamente con 27 forti in turco in te-
desco allò Ibrahim Rudolf allò allò
attori ruoli echi suggeritori
scenari di fumo foreste
applausi odore di fieno fango sterco non
sento più i miei piedi gelati odore di sal-
nitro odore di marcio Timmmpani
flauti clarini dovunque basso alto uccelli
cinguettare beatitudine ombrie cip-cip-cip brezza
verde mandre don-dan-don-din-bèèè tam-tumb-
tumb tumb-tumb-tumb-tumb-tumb-
tumb Orchestra pazzi ba-
stonare professori d’orchestra questi bastona-
tissimi suooooonare suooooonare Graaaaandi
fragori non cancellare precisare ritttttagliandoli
rumori più piccoli minutisssssssimi rottami
di echi nel teatro ampiezza 300 chilometri
quadri Fiumi Maritza
Tungia sdraiati Monti Ròdopi
ritti alture palchi logione
2000 shrapnels sbracciarsi esplodere
fazzoletti bianchissimi pieni d’oro Tumb-
tumb 2000 granate protese
strappare con schianti capigliature
tenebre zang-tumb-zang-tuuum
tuuumb orchesta dei rumori di guerra
gonfiarsi sotto una nota di silenzio
tenuta nell’alto cielo pal-
lone sferico dorato sorvegliare tiri parco
aeroatatico Kadi-Keuy
Che stai facendo, figlio?
Sogno, madre mia, sogno
che sto cantando,
e tu mi chiedi, nel sogno:
che stai facendo figlio?
Che canti, nel sogno, o figlio?
Canto, madre, che avevo una casa.
E adesso la casa non ce l’ho.
Questo canto, madre.
Avevo la mia voce, o madre,
e la mia lingua avevo.
E ora non ho né voce né lingua.
Con la voce che non ho,
nella lingua che non ho,
della casa che non ho,
io canto la mia canzone,
o madre.
Voghera – Il mercato in Piazza Duomo – 1917
Chi cavalca così tardi per la notte e il vento?
È il padre con il suo figlioletto;
se l’è stretto forte in braccio,
lo regge sicuro, lo tiene al caldo.
«Figlio, perché hai paura e il volto ti celi?»
«Non vedi, padre, il re degli Elfi?
Il re degli Elfi con la corona e lo strascico?»
«Figlio, è una lingua di nebbia, nient’altro.»
«Caro bambino, su, vieni con me!
Vedrai i bei giochi che farò con te;
tanti fiori ha la riva, di vari colori,
mia madre ha tante vesti d’oro».
«Padre mio, padre mio, la promessa non senti,
che mi sussurra il re degli Elfi?»
«Stai buono, stai buono, è il vento, bambino mio,
tra le foglie secche, con il suo fruscio.»
«Bel fanciullo, vuoi venire con me?
Le mie figlie avranno cura di te.
Le mie figlie di notte guidano la danza
ti cullano, ballano, ti cantano la ninna-nanna».
«Padre mio, padre mio, in quel luogo tetro non vedi
laggiù le figlie del re degli Elfi?»
«Figlio mio, figlio mio, ogni cosa distinguo;
i vecchi salci hanno un chiarore grigio.»
«Ti amo, mi attrae la tua bella persona,
e se tu non vuoi, ricorro alla forza».
«Padre mio, padre mio, mi afferra in questo istante!
Il re degli Elfi mi ha fatto del male!»
Preso da orrore il padre veloce cavalca,
il bimbo che geme, stringe fra le sue braccia,
raggiunge il palazzo con stento e con sforzo,
nelle sue braccia il bambino era morto.
Johann Wolfgang von Goethe
C’était dans un quartier de la ville lumière
Où il fait toujours noir où il n’y a jamais d’air
Et l’hiver comme l’été là c’est toujours l’hiver
Elle était dans l’escalier
Lui à côté d’elle elle à côté de lui
C’était la nuit
Ça sentait le souffre
Car on avait tué des punaises dans l’après-midi
Et elle lui disait
Ici il fait noir
Il n’y a pas d’air
L’hiver comme l’été c’est toujours l’hiver
Le soleil du bon dieu ne brill’ pas de notr’ côté
Il a bien trop à faire dans les riches quartiers
Serre-moi dans tes bras
Embrasse-moi
Embrasse-moi longtemps
Embrasse-moi
Plus tard il sera trop tard
Notre vie c’est maintenant
Ici on crèv’ de tout
De chaud et de froid
On gèle on étouffe
On n’a pas d’air
Si tu cessais de m’embrasser
Il me semble que j’mourais étouffée
T’as quinze ans j’en ai quinze
A nous deux on a trente
A trente ans on n’est plus des enfants
On a bien l’âge de travailler
On a bien celui de s’embrasser
Plus tard il sera trop tard
Notre vie c’est maintenant
Embrasse-moi !
Jacques Prévert
…ma c’é voluto del talento
per riuscire ad invecchiare senza diventare adulti…
Mon amour
Mon doux mon tendre mon merveilleux amour
De l’aube claire jusqu’à la fin du jour
Je t’aime encore tu sais je t’aime
(Jacques Brel)
Ti dedicherei una canzone,
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Potrei stare senza bere camminare senza meta potrei vendere il letto e dormire per terra potrebbe sparire il profumo dei fiori smettere di nevicare per sempre potrei bruciare tutti i libri e poi vivere in cantina potrebbero togliermi il mare togliermi il pane la pasta la pizza crollare la casa svanire il sorriso di tuti i bambini potrei andare lontano gettare le carte le foto e i regali potrebbero togliermi il sole e forse anche il respiro ma non potrebbero mai togliermi te |
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Una volta in una fosca mezzanotte, mentre io meditavo, debole e stanco, sopra alcuni bizzarri e strani volumi d’una scienza dimenticata; mentre io chinavo la testa, quasi sonnecchiando – d’un tratto, sentii un colpo leggero, come di qualcuno che leggermente picchiasse – pichiasse alla porta della mia camera. «È qualche visitatore – mormorai – che batte alla porta della mia camera.» Questo soltanto, e nulla più.
Ah! distintamente ricordo; era nel fosco Dicembre, e ciascun tizzo moribondo proiettava il suo fantasma sul pavimento. Febbrilmente desideravo il mattino: invano avevo tentato di trarre dai miei libri un sollievo al dolore – al dolore per la mia perduta Eleonora, e che nessuno chiamerà in terra – mai più.
E il serico triste fruscio di ciascuna cortina purpurea, facendomi trasalire – mi riempiva di tenori fantastici, mai provati prima, sicchè, in quell’istante, per calmare i battiti del mio cuore, io andava ripetendo: «È qualche visitatore, che chiede supplicando d’entrare, alla porta della mia stanza. Qualche tardivo visitatore, che supplica d’entrare alla porta della mia stanza; è questo soltanto, e nulla più».
Subitamente la mia anima divenne forte; e non esitando più a lungo: «Signore – dissi – o Signora, veramente io imploro il vostro perdono; ma il fatto è che io sonnecchiavo: e voi picchiaste sì leggermente, e voi sì lievemente bussaste – bussaste alla porta della mia camera, che io ero poco sicuro d’avervi udito». E a questo punto, aprii intieramente la porta. Vi era solo la tenebra, e nulla più.
Scrutando in quella profonda oscurità, rimasi a lungo, stupito impaurito sospettoso, sognando sogni, che nessun mortale mai ha osato sognare; ma il silenzio rimase intatto, e l’oscurità non diede nessun segno di vita; e l’unica parola detta colà fu la sussurrata parola «Eleonora!» Soltanto questo, e nulla più.
Ritornando nella camera, con tutta la mia anima in fiamme; ben presto udii di nuovo battere, un poco più forte di prima. «Certamente – dissi – certamente è qualche cosa al graticcio della mia finestra.» Io debbo vedere, perciò, cosa sia, e esplorare questo mistero. È certo il vento, e nulla più.
Quindi io spalancai l’imposta; e con molta civetteria, agitando le ali, si avanzò un maestoso corvo dei santi giorni d’altri tempi; egli non fece la menoma riverenza; non esitò, nè ristette un istante ma con aria di Lord o di Lady, si appollaiò sulla porta della mia camera, s’appollaiò, e s’installò – e nulla più.
Allora, quest’uccello d’ebano, inducendo la mia triste fantasia a sorridere, con la grave e severa dignità del suo aspetto: «Sebbene il tuo ciuffo sia tagliato e raso – io dissi – tu non sei certo un vile, orrido, torvo e antico corvo errante lontanto dalle spiagge della Notte dimmi qual’è il tuo nome signorile sulle spiagge avernali della Notte!» Disse il corvo: «Mai più».
Mi meravigliai molto udendo parlare sì chiaramente questo sgraziato uccello, sebbene la sua risposta fosse poco sensata – fosse poco a proposito; poichè non possiamo fare a meno d’ammettere, che nessuna vivente creatura umana, mai, finora, fu beata dalla visione d’un uccello sulla porta della sua camera, con un nome siffatto: «Mai più».
Ma il corvo, appollaiato solitario sul placido busto, profferì solamente quest’unica parola, come se la sua anima in quest’unica parola avesse effusa. Niente di nuovo egli pronunziò – nessuna penna egli agitò – finchè in tono appena più forte di un murmure, io dissi: «Altri amici mi hanno già abbandonato, domani anch’esso mi lascerà, come le mie speranze, che mi hanno già abbandonato». Allora, l’uccello disse: «Mai più».
Trasalendo, perchè il silenzio veniva rotto da una risposta sì giusta: «Senza dubbio – io dissi – ciò ch’egli pronunzia è tutto il suo sapere e la sua ricchezza, presi da qualche infelice padrone, che la spietata sciagura perseguì sempre più rapida, finchè le sue canzoni ebbero un solo ritornello, finchè i canti funebri della sua Speranza ebbero il malinconico ritornello: «Mai, – mai più».
Ma il corvo inducendo ancora tutta la mia triste anima al sorriso, subito volsi una sedia con ricchi cuscini di fronte all’uccello, al busto e alla porta; quindi, affondandomi nel velluto, mi misi a concatenare fantasia a fantasia, pensando che cosa questo sinistro uccello d’altri tempi, che cosa questo torvo sgraziato orrido scarno e sinistro uccello d’altri tempi intendea significare gracchiando: «Mai più».
Così sedevo, immerso a congetturare, senza rivolgere una sillaba all’uccello, i cui occhi infuocati ardevano ora nell’intimo del mio petto; io sedeva pronosticando su ciò e su altro ancora, con la testa reclinata adagio sulla fodera di velluto del cuscino su cui la lampada guardava fissamente; ma la cui fodera di velluto viola, che la lampada guarda fissamente Ella non premerà, ah! – mai più!
Allora mi parve che l’aria si facesse più densa, profumata da un incensiere invisibile, agiato da Serafini, i cui morbidi passi tintinnavano sul soffice pavimento, «Disgraziato! – esclamai – il tuo Dio per mezzo di questi angeli ti ha inviato il sollievo – il sollievo e il nepente per le tue memorie di Eleonora! Tracanna, oh! tracanna questo dolce nepente, e dimentica la perduta Eleonora!» Disse il corvo: «Mai più».
«Profeta – io dissi – creatura del male! – certamente profeta, sii tu uccello o demonio! Sia che il tentatore l’abbia mandato, sia che la tempesta t’abbia gettato qui a riva, desolato, ma ancora indomito, su questa deserta terra incantata in questa visitata dall’orrore – dimmi, in verità, ti scongiuro. Vi è – vi è un balsamo in Galaad? dimmi, dimmi – ti scongiuro». Disse il corvo: «Mai più».
«Profeta! – io dissi – creatura del male! – Certamente profeta, sii tu uccello o demonio! Per questo Cielo che s’incurva su di noi – per questo Dio che tutti e due adoriamo – di’ a quest’anima oppressa dal dolore, se, nel lontano Eden, essa abbraccerà una santa fanciulla, che gli angeli chiamano Eleonora, abbraccerà una rara e radiosa fanciulla che gli angeli chiamano Eleonora». Disse il corvo: «Mai più».
«Sia questa parola il nostro segno d’addio, uccello o demonio!» – io urlai, balzando in piedi. «Ritorna nella tempesta e sulla riva avernale della notte! Non lasciare nessuna piuma nera come una traccia della menzogna che la tua anima ha profferita! Lascia inviolata la mia solitudine! Sgombra il busto sopra la mia porta!». Disse il corvo: «Mai più».
E il corvo, non svolazzando mai, ancora si posa, ancora è posato sul pallido busto di Pallade, sovra la porta della mia stanza, e i suoi occhi sembrano quelli d’un demonio che sogna; e la luce della lampada, raggiando su di lui, proietta la sua ombra sul pavimento, e la mia, fuori di quest’ombra, che giace ondeggiando sul pavimento non si solleverà mai più!
Edgar Allan Poe
volo e volando sorrido e volando io penso e volando io canto io sorrido e poi canto e cantando io penso e cantando sorrido e sorrido volando rido e ridendo io avanzo e ridendo io volo e ridendo io penso io penso e poi avanzo avanzando io canto avanzando nel volo tra le stelle io rido |
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