Visto che qualcuno me l’ha chiesto, vi racconto alcune cose del nostro recente tour negli Stati Uniti. Come premessa devo subito specificare che non abbiamo visitato tutti gli stati, ma solo quattro, e in modo anche superficiale, quindi tutto quello che scriverò sarà relativo alla piccola esperienza tra le strade, le città, i paesi e le distese infinite di una parte di: California, Nevada, Utah e Arizona. Per intenderci è come se un turista venisse in Italia, vedesse Venezia, Firenze, Taormina e L’Aquila: un’idea dell’Italia se l’è fatta, ma giusto un’idea.
Vi parlerò di ciò che abbiamo visto, delle mie impressioni, dei miti e dei falsi miti, della gente, vi racconterò aneddoti e alcune piccole riflessioni.
Come prima cosa vi spiego per sommi capi il nostro itinerario: Los Angeles, Disneyland, Hollywood, Santa Monica, Death Valley, Page, Monument Valley, Grand Canyon, Route 66, Joshua Tree Park, Palm Springs, San Diego e Tijuana.
In una bella giornata di luglio, Io e Leo partiamo da Capanne di Cosola. Non sappiamo quanto staremo via, quindi ho con me uno zaino grande pieno di cambi (e di acqua). Leo ha il suo zainetto di Bing, con dentro qualche panino, che dopo poche centinaia di metri lascia portare a me.
Chi ha fatto questo percorso lo sa: è tutto un saliscendi, e la meta sembra non arrivare mai. Dopo un’ora di cammino, l’app che utilizzo mi segnala che abbiamo fatto solo il 9% del percorso. Un pelino di sconforto inizia ad insinuarsi nella mia testa: sono già molto stanco, soprattutto a causa del peso che devo portare (lo zaino, lo zainetto, e spesso anche Leo) e ho compiuto meno del 10% da “fresco“, quindi per fare tutto il percorso di oggi ci metteremo, se va bene, 10 ore? Ohibò, siamo partiti molto tardi, alle 10. Ho fatto male i miei conti.
Per ora proseguiamo, non ci sono molte alternative, siamo in mezzo ai monti. Finché non arriveremo a una strada asfaltata non c’è neanche modo di farci venire a prendere. Quindi forza, coraggio, pause, e si prosegue. Cerco di portare in spalla Leo nelle discese, perché nelle salite mi è davvero impossibile: oltre al peso, lo zaino mi ingombra e quindi il bambino mi sta sulle spalle in una posizione sbagliata, pesandomi sul collo, sulla nuca e sulla testa.
Dove non possono le energie, può la forza di volontà. Quando arriviamo alle pendici del Monte Carmo la traccia mi dice di circumnavigarlo. Col cavolo: per me fare “trekking” vuol dire conquistare, e quindi DEVO conquistare anche questa cima. Saliamo. Poi scendiamo fino a Capanne di Carrega.
Siamo solo a poco più di metà percorso e sono già le 15:30, sono molto provato, i cartelli indicano che per raggiungere il monte Antola ci vogliono due ore, col passo da escursionista ovviamente, noi abbiamo i tempi dilatati e quasi raddoppiati, per ovvie ragioni.
Secondo me ce la facciamo. Non so come, non so quando, non so in che condizioni, ma arriveremo.
Il mio dubbio più grande, ovviamente, riguarda Leo.
Per ora si è fatto portare poco, ma per esperienza potrebbe cedere da un momento all’altro, e non camminare più. Non ha neanche quattro anni e la tappa di oggi è lunga oltre 16 km, e soprattutto con un forte dislivello. A volte, quando facciamo un giro per Voghera, non vuol più camminare e mi tocca portarlo in braccio per qualche centinaio di metri. Qui siamo in montagna, sono stravolto, e stiamo parlando di chilometri.
Ma ce la faremo, ne sono sicuro.
A volte mi tolgo lo zaino e mi rendo conto che improvvisamente mi tornano tutte le energie. Per capire se è solo una sensazione oppure è davvero così, mi tolgo lo zaino e provo a fare una corsetta. Viaggio come un treno. Ottimo. Vuol dire che le forze ci sono, e con il mio bambino sono pronto ad andare anche sulla Luna.
Fortunatamente la salita all’Antola è lunga, ma non molto ripida. Leo sembra in grande forma. Io sfodero tutti i miei trucchi psicologici a disposizione: giochiamo a nascondino, giochiamo a “tu non mi prendi”, cantiamo canzoni, facciamo video, giochiamo a chi arriva prima, guardiamo se vediamo le mucche e cerchiamo di evitarne le cacche, raccogliamo fiori da portare alla mamma, ecc.
L’ultimo tratto è ancora in netta salita. Leo vorrebbe esser preso in spalla, ma la mia schiena si rifiuta, allora lo prendo in braccio. Anche in questo caso la traccia vorrebbe farmi tagliare la vetta del monte Antola per andare verso il rifugio. Non ci penso neanche, sono nove ore che cammino e voglio piantare la bandiera virtuale sulla vetta.
Quando siamo là in alto è una sensazione eccezionale, indescrivibile. Ce l’ho fatta, considerando che dopo un’ora di cammino ero già stanchissimo. Ce l’abbiamo fatta, siamo una squadra fortissima. Soprattutto Leo ce l’ha fatta! Sono estremamente orgoglioso del mio bimbo. È qui che salta come una cavalletta, non ha mai fatto una volta i capricci, ha mangiato, bevuto e riposato quando doveva, e ha camminato tanto, sicuramente più di due terzi del percorso. È il mio campione.
Raggiungiamo il rifugio del Parco Antola, dove ci attende una bella doccia e una cena deliziosa, degna dei migliori ristoranti (giuro, vi assicuro che non era la fame, era proprio tutto molto buono). Troviamo anche una famiglia con un bambino di un anno più grande di Leo. Loro sono partiti da Capanne di Carrega o da Casa del Romano, quindi hanno fatto un po’ meno di metà del nostro percorso (e soprattutto la parte più facile), e il papà mi diceva che ha portato il bambino in spalla per ben più di metà del percorso.
Giorno 2: dopo un sonno ristoratore e un abbondante colazione prendiamo il sentiero che ci farà scendere verso Torriglia. Penso che ho già chiesto tanto al mio piccolo, quindi decido che sarà il nostro ultimo giorno. Chiamo l’albergo (che avevamo prenotato) per disdire, dicendo che sarai passato per lasciare ciò che dovevo, ma loro, molto gentilmente, mi hanno ringraziato per aver telefonato e mi hanno detto che eravamo a posto così. Ho chiamato Valentina, con la quale eravamo già d’accordo di vederci a Torriglia, comunicandole che saremmo tornati tutti insieme con lei.
La discesa è stata piacevole e, anche se nel tratto finale è molto impegnativa in quanto tutta mulattiera, non ha presentato particolari problemi. Abbiamo chiacchierato e giocato. Siamo arrivati a Torriglia alle tre del pomeriggio per un bel gelatone.
Ho letto questo libro: Mai dire noi, tutto quello che non avreste voluto sapere, della Gialappa’s Band in collaborazione con Andrea Amato.
Racconta la storia della Gialappa’s band: quando si sono conosciuti, Le prime esperienze, la scelta del nome, ecc. Da quando hanno iniziato con la radio, poi sono diventati autori TV e per finire hanno inventato un modo di fare TV, quindi un mezzo che fa dell’apparire la sua sostanza primaria, senza apparire, usando soltanto la voce.
Spiegano i loro rapporti con i tanti comici che hanno lanciato o rilanciato verso il successo, i rapporti con i direttori di rete e con tanti altri personaggi del mondo dello spettacolo.
Negli anni novanta io non mi perdevo una puntata di mai dire Gol, quindi quelle tre voci sono state un sottofondo della mia gioventù e questo libro mi ha fatto scoprire tanti aneddoti che non conoscevo
Tutte scuse. Si, certo, c’è un fondo di verità, ma si tratta di PRIORITÀ: se vuoi fare una cosa la fai, se vuoi vedere una persona la vedi, se vuoi occuparti di una faccenda te ne occupi. Se non lo fai, se procrastini, se eviti, puoi raccontare a te stesso tutte le “scuse” che vuoi, ma la realtà è che quella cosa, o quella persona o faccenda non è così prioritaria per te.