Ho letto questo libro del 2002 di Fabrizio Bernini dal titolo “Le stragi di Barostro e Cencerate – Autunno 1944 nel varzese“.
Racconta episodi della guerra civile che c’è stata in Italia negli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale, che si svolsero nell’alta Valle Staffora, a Varzi e ancora sopra. La zona è stata inizialmente sotto il controllo di bande organizzate di “ribelli“, come li chiamarono in tanti, oppure di “partigiani“, come vengono storicamente definiti. Erano tutti giovani che per qualche motivo si ritrovarono a combattere per cercare di liberare il nord Italia dal regime Fascista. C’era chi ci credeva, chi ci sperava, chi non voleva sottostare ai soprusi dell’esercito regolare, chi non aveva scelta e chi ne approfittava. E qualcuno per più di uno di questi motivi.
La guerra è davvero brutta, e anche se non l’ho vissuta in prima persona l’ho sentita spesso raccontare dai miei genitori, da mio nonno e da alcuni anziani dei miei paesi. La guerra civile è una cosa ancora più brutta perché mette di fronte persone che abitano o vivono negli stessi luoghi. E quindi è intrisa maggiormente di ingiustizie, ripicche, vendette, soprusi, angherie e tragedie.
Nelle brigate partigiane militava il “Commissario Piero“, nome di battaglia di Giovanni Orfeo Landini, nipote di quel Landini che fondò lo stabilimento di trattori agricoli. Divenuto strenuo antifascista fu arrestato negli anni ’40 per cospirazione e tenuto in carcere fino ad ottobre del ’43, quando entra nei ranghi della rete organizzativa e militare del PCI. Rimane coinvolto nell’assassinio di un commissario federale fascista a Milano e quindi il PCI ritiene opportuno il suo allontanamento in Oltrepò Pavese, per coordinare bande di ribelli irregolari in formazioni regolari e divenne commissario politico della brigata Aliotta.
Occorreva un luogo da dedicare a campo di prigionia per i prigionieri e si scelsero due paesi situati nel comune di Brallo (all’epoca comune di Pregola): Barostro e Cencerate, raggiungibili risalendo la valle dello Staffora fin quasi alla fonte, percorrendo una stretta mulattiera. Nel settembre 1944 tra i prigionieri si contavano soldati dell’esercito regolare, civili, esponenti del Partito Fascista, tedeschi.
A metà ottobre si scatena una rappresaglia, ovvero una “risposta” a fatti di sangue, fucilazioni a danno di partigiani commesse dai fascisti. Si decide di fucilare 33 esponenti della brigata San Marco. Una commissione partigiana dette una parvenza di tribunale e i condannati scesero a 9. Essi erano nel campo di prigionia di Barostro. Don Rino Cristiani, parroco di Nivione, li confessa, dà loro la comunione e raccoglie i loro ultimi desideri. Un ragazzino di 15 anni, Oreste Flauto, si offre per essere fucilato al posto di un commilitone. Il racconto di don Cristiani è commovente, dirò soltanto che convinse un condannato a perdonare ed abbracciare chi lo stava per uccidere, un attimo prima della fucilazione.
Nell’agosto ’44 ci fu una rappresaglia a Milano, in piazzale Loreto, per via di un attentato che costò la vita a militari tedeschi e civili: i fascisti prelevarono quindici partigiani e li fucilarono. La delegazione lombarda dei partigiani ordinò quindi di passare per le armi i prigionieri nazifascisti.
A Varzi questa notizia fu accolta con sgomento e una piccola delegazione parlò col commissario Piero per avere garanzie su un giusto processo, prima di ordinare qualsiasi fucilazione.
Il problema dei prigionieri era che nell’autunno ’44 era in corso un grande rastrellamento a largo raggio delle truppe tedesche e dei “mongoli” (truppe in realtà calmucche) e portarsi dei prigionieri durante un’eventuale ritirata era un impiccio. Liberarli voleva dire esporsi a possibili fughe di notizie. Quindi, che fare? C’era l’ordine di fucilazione, ma questo ordine scritto non fu mai confermato. Il Landini sostenne sempre che questo ordine fosse esistito, ma non fu mai provato.
Alla fine questo ordine fu dato a chi comandava i due campi, quello di Barostro e quello di Cencerate. Quelli che dovevano occuparsene erano comunque dei giovani, erano comunque degli uomini, e molti furono presi, se non da dubbi, da scrupoli, perlomeno da pietà, da paura, e cercano di far fuggire i prigionieri, almeno quelli come i borghesi che godevano di un’ampia autonomia all’interno dei campi.
Don Rino tento di persuadere il Landini a ravvedersi dal suo proposito, ma inutilmente. Arrivati i fucilandi, il prete li accolse per dare loro conforto e qualcuno di loro gli lasciò degli scritti per i famigliari.
Nel dopoguerra Orfeo Landini fu processato e considerato colpevole di omicidio volontario continuato. Lui si difese sostenendo di aver solo obbedito a un ordine, ma prove in tal senso non ne furono mai prodotte e le testimonianze non deponevano a suo favore. Si ritenne che, pur essendo gli avvenimenti occorsi in stato di guerra, il Commissario Piero ebbe la colpa di far fucilare anche 4 civili, perlopiù non in un atto di guerra, ma compiendo un omicidio dettato da moventi politici. Fu condannato a 18 anni, ma non scontò in pieno la pena in carcere per un’amnistia.
50 anni dopo la guerra Landini rilasciò a Bernini stesso, l’autore di questo libro, un’intervista dove si dichiarava membro del commando che da Milano partì nell’aprile 1945 per prendere in consegna Mussolini e che invece lo fucilò.