E ho guardato dentro un’emozione
E ci ho visto dentro tanto amore
Che ho capito perché non si comanda il cuore
E va bene così…
Month: June 2019 Page 1 of 2
Il modo migliore di predire il futuro? Inventarlo.
C’è chi vive, chi vivacchia, chi non vive. C’è chi vicicchia, chi vive alla grande, chi vive male, chi non vive. Io…. VIVERONE!
Sono fortunato. Sto bene, non mi manca niente, e c’è il sole 🌞
” Guarda che cielo che hai, guarda che sole che hai, guardati è guarda cos’hai e…guarda dove vai!”
Vi rimando alla prima puntata: www.fabiotordi.it/blog/?p=2473
e alla seconda: www.fabiotordi.it/blog/?p=2505
Il canto narrativo al Brallo e la sua ritualizzazione
I canti narrativi vengono detti al Brallo (come un po’ ovunque) fatti, senza naturalmente far distinzione fra quelli antichi e quelli recenti, da cantastorie. I fatti sono considerati racconti di storie realmente avvenute. Eva Tagliani diceva: “Le canzoni hanno un significato d’una cosa ch’è successo“. Alcune delle storie esposte nei fatti vengono localizzate in zone vicine.
Il canto aveva (e in parte ha ancora) un’importanza fondamentale nella vita sociale della comunità. Il canto narrativo in particolare ha goduto d’un ruolo di alto rilievo così da venir integrato in diversi momenti rituali dell’anno: nozze, feste religiose, carnevale. Nel rito matrimoniale, per esempio, veniva integrata La sposina (frammento della ballata Sposa per forza), cantata e suonata dal corteo di invitati e musicisti (il piffero era lo strumento obbligato ai matrimoni) che accompagnava la sposa dalla sua casa a quella del marito. Il canto Le carrozze son già preparate, invece, veniva cantato alla giovane coppia durante il pranzo nuziale. La ritualizzazione dei canti narrativi non era però limitata, al Brallo, al momento nuziale o alle situazioni religiose (novene natalizie, canti agiografici, ecc.), ma soprattutto trovava spazio nel carnevale. Il teatro carnevalesco era, al Brallo, “serio” e per nulla burlesco o farsesco. Fino a circa trentacinque anni fa al Brallo la tradizione voleva che i giovani, (un tempo soltanto i maschi, poi anche le femmine), dai sedici ai vent’anni, soprattutto di Feligara e di Colleri (e più di rado di paesi fuori del territorio comunale), facessero la “mascherata“, cioè drammatizzassero, in costume ma senza maschera sul viso, un canto narrativo, un fatto. Questa drammatizzazione si distingueva dalla “recita”, così come si distingueva dai travestimenti burleschi spontanei (per esempio il “mulita“, cioè l’arrotino, il “magnano“, cioè il calderaio, ecc.), pur presenti. La performance ambulante dei giovani veniva inserita nel contesto di una questua che raggiungeva tutte le frazioni del comune.
Un mese prima della “mascherata”, durante le veglie, i giovani si consultavano per scegliere il fatto da rappresentare e si assegnavano poi le parti. Si iniziavano poi le prove che avevano luogo ogni sera, per circa un mese. Circa venti-venticinque giovani potevano partecipare: parti principali, parti secondarie e coro. C’erano poi i musicisti, piffero e fisarmonica, e due questuanti che portavano uno un cestino, per raccogliere le uova, uno un sacco, per metterci la farina. Le performances duravano tutta la settimana prima di carnevale, con la visita di tre o quattro gruppi d’abitazioni al giorno. Entrando nell’abitato, uno della compagnia, annunciava, suonando una conchiglia, l’arrivo della “mascherata”. Lo spettacolo durava tra la mezz’ora e i tre quarti d’ora (con qualche eccezione di spettacoli più lunghi : per esempio Isabella durò più d’un’ora).
Il dramma cantato non era di solito accompagnato dagli strumenti. I musicisti intervenivano soltanto in quei casi nei quali la loro presenza era richiesta dal testo o dalla situazione drammatica (per esempio nella E l’ui bella l’è là sul mar, dov’è previsto dal testo un ballo) e suonavano alla fine dello spettacolo, mentre i questuanti raccoglievano le offerte.
Eva ricordava che nella sua giovinezza solo gli uomini partecipavano alle “mascherate” e il fatto preferito era Cecilia. Ma già all’età di diciassette-diciannove anni, Eva potè far parte degli spettacoli carnevaleschi, nel coro (Pierina), come una delle sorelle (Fernanda e Bortolino) e infine come protagonista (E l’ui bella l’è là sul mar). Il travestimento maschile e femminile era reversibile: personaggi maschili potevano essere interpretati da donne e viceversa. Da più informatori la solennità e l’assoluta serietà della “mascherata” è stata confermata. Il dramma commuoveva profondamente il pubblico, che partecipava anche piangendo ai momenti -più tristi e drammatici della storia.
Le ballate più arcaiche di tradizione orale formano lo strato “vecchio” delle “mascherate” del Brallo. Le generazioni più giovani hanno introdotto canti più recenti, soprattutto da cantastorie, desunti da libretti popolari e da fogli volanti (per esempio Teresina e Eugenio [il brano non è compreso nel disco], Isabella e Ferruccio).
Negli ultimi anni, varie modificazioni, anche molto evidenti, sono intervenute nelle “mascherate” del Brallo. L’adozione dei testi moderni da cantastorie hanno portato alla progressiva sostituzione del discorso diretto e in molti casi interamente dialogato tipico delle ballate arcaiche con il discorso indiretto e “narrativo” delle “storie” offerte dai fogli volanti. In tal modo il canto a solo si è aperto ad una maggiore partecipazione del coro “narratore”.
L’ammissione di alcune donne già aveva indotto delle trasformazioni. Nel tempo la percentuale fra uomini e donne si è addirittura invertita, così da trasformare la “mascherata” in una manifestazione posta prevalentemente nel dominio femminile. Infine essa è diventata manifestazione infantile, con i bambini mascherati secondo modelli standard ed è caduto il canto.
Tale discesa nella gerarchia sociale (dagli uomini alle donne ai bambini) è sintomatica della progressiva perdita di vitalità e di funzionalità della tradizione. Oggi per gli adulti sarebbe impensabile continuare la tradizione della “mascherata” (guai se qualcuno si mette a girare a cantare). Da segnalare anche che nelle ultime mascherate effettuate era aumentata, attraverso la scelta dei testi, la condanna delle ingiustizie sociali.
A me “piace” essere sempre in movimento, avere sempre mille impegni e mille cose da fare (e non riuscire mai e poi mai a farle tutte, anche perché ovviamente mentre le fai se ne aggiungono altre). Senza, probabilmente, mi sentirei un po’ perso e annoiato. Però è bello e doveroso ogni tanto fermarsi e farsi scivolare via tutto e godersi l’attimo, senza pensieri.
Istallazione metropolitana: il successo le ha dato alla testa.
Articolo di Mattia Tanzi su “Il Popolo” del 22 luglio 2004
C’è gente che sembra volersela peggiorare, la vita. Io cerco sempre invece di fare quel passettino in più verso il meglio. Ovvio, non sempre è possibile e non è facile, però ogni volta che devo fare una scelta ci medito: va nella direzione giusta? Altrimenti, meglio di no.
Per amare senza dipendenza e necessità, bisogna prima dare valore a se stessi. Ciò significa che per dire “ti amo”, prima bisogna sapere dire “mi amo”. L’amor proprio e la conoscenza di se stessi è la chiave per stabilire relazioni sane.
Riassumendo, possiamo dire che, per trovare la persona giusta, dobbiamo essere pronti ad avere una relazione. Ciò esige del lavoro interiore che può essere duro, ma che renderà i suoi frutti.
“Se l’amore fosse un albero, le radici sarebbero l’amor proprio. Più amiamo noi stessi, più frutti riceveremo dal nostro amore per gli altri e più duraturi saranno nel tempo” – Walter Riso
Prenditi quello che sei e non rimpiangerti mai. Se non ti piaci, vedrai…non cambierai. Prenditi quello che vuoi e non nasconderti mai. Guarda le spalle che hai, forse ce la farai. Guarda che cielo che hai, guarda che sole che hai, guardati e guarda cos’hai e… guarda dove vai!