In questa intervista: il matrimonio, l’arrivo a Brallo, la casa, gli anni ’50
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L’anno, si sa, ha quattro stagioni. La primavera è per tutti, l’arrivo benefico del risveglio della natura. L’estate è accostata alle vacanze, al turista che gode dell’aria salubre, al ritorno al proprio paesello di quegli abitanti emigrati altrove. C’è trambusto: preparare feste, cuocere polente e salamini, imbandire tavolate di succulenti risotti, nonché dolci di varie specie. L’autunno è magnifico per i suoi colori, che a descriverli non basterebbe la tavolozza di un pittore. Gli orti offrono ogni ben di dio, dalle patate ai pomodori. L’autunno è propriamente accostato alla raccolta dei funghi, delle castagne, al tramestio dei cacciatori e dei trattori carichi di legna. Ed ecco poi l’inverno: lo si vuole freddo, triste, disadorno, lungo da passare. A Pregola non è così: coi suoi 1000 metri di altitudine l’inverno è una bellezza. Dapprima le piogge scroscianti, benefiche, che irrigano la terra; poi un bel manto di neve bianca, soffice, pulita, che copre tutto come una calda coperta; infine un silenzio assoluto che ti dà il modo di pensare, di ricordare, di progettare, di essere contento, di godere di quel mondo incantato che il paesaggio ti offre. Gli alberi spogli stanno lì fermi, sembrano sentinelle. I pini pendono i rami carichi e aspettano l’alito del vento per potersi scrollare di dosso la neve gelata. Il monte la fa da padrone: domina su tutta la vallata e ti difende dai venti. Lassù sulla punta sta la Madonna: il suo sguardo è per tutti, ma soprattutto volge a Pregola il suo gradimento. Gli uccelli che non hanno di che cibarsi, se non di una bacca di ginepro, volano a bassa quota cinguettando tutto il giorno: il loro pigolio anima la quiete della vallata. La neve e il freddo non sono più un grande guaio: con caldi doposci moon boot acquistati dalla Cinzia, con le scarpe da trekking da Fabio, la giacca a vento da Siro e il quad con quattro ruote motrici da Ivo ci si può permettere (come il dottor Villani) più di un bel giro sui prati innevati o su qualsiasi tipo di strada, sia essa impervia o ghiacciata. Che ne dite? È poi così brutto l’inverno a Pregola? Il rintocco delle campane è sì un po’ più fioco, ma non da meno squillante quando a Natale chiama a sé gli abitanti delle frazioni vicine per le messe religiose. E le case del paese? Abbarbicate attorno a quel pendio del monte, sembra si diano la mano, si tengano a braccetto, si sussurrino le paroline. Insomma un paesino da fiaba che trova il modo di sentirsi vivo anche in mezzo a quel gran silenzio. E la gente? Poca, in verità, ma buona. Cordiale, umile, socievole, generosa, sa badare ai fatti suoi e camminare con le sue tradizioni. La vita c’è: un camino fuma, una porta si apre e la vita è bella. È bello viverla quassù, dove si sente più che mai dover ringraziare Dio che ce l’ha data. E poi il Park Hotel? Raramente lo si trova su in montagna: le sue luci sfavillanti a tutte le ore richiamano gente da tutte le parti per un buon riposo e benessere. E che dire del nostro Gerry? Le sue sculture religiose su legno vivo testimoniano la sua bravura e l’impegno di tutti noi a non trascurare il loro significato: “Il mondo è bello, ma Dio ce l’ha solamente prestato”. Venite a Pregola d’inverno, un badile da offrirvi per spalare ve lo abbiamo preparato. Sapevate che fa la ruggine se inoperoso?
Rita
Foto by giames
Ecco qualche foto che ho scattato lo scorso weekend nei dintorni di Brallo.
Per vederle meglio basta cliccarci sopra.
Bella questa, eh? A me piace un sacco…
Queste tre le ho fatte sulla strada che porta a Pregola, la prossima invece rappresenta un Bambi sopra Corbesassi. E’ un… boh? Capriolo? Cerbiatto? Cervo a primavera? Stambecco? Daino? Alce? Gnu? Bufalo? Renna? Bue Muschiato? Va beh.. quello li insomma.
Seconda puntata dei racconti di Siro del Brallo: il suo vero nome, il suo paese di origine, la sua famiglia, le scuole, il suo arrivo a Brallo, i primissimi passi nel commercio, l’incontro con la futura moglie.
Lo so, cari i miei quaranta lettori, che è un po’ che non scrivo con continuità. Il fatto è che qui a Brallo la connessione con chiavetta è di una lentezza estenuante e quel poco di banda che riesco a spremere lo uso per leggere le email e fare dell’altro più strettamente necessario, dedicando poco tempo alla scrittura del blog.
E’ stato un agosto parecchio caldo, soprattutto ora nella sua parte finale. Ho perso la festa della polenta di Cortevezzo. Alla sera sono sempre stanco e devo trovare un valido motivo, nonchè della valida compagnia, per perdermi quell’oretta di relax in casa all’ora di cena. La festa della birra di Corbesassi si è confermata come una bella festa, e dire che non è organizzata da moltissimi anni. Complimenti quindi ai ragazzi che se ne occupano.
Anche quest’anno non ho ancora trovato un paio di ore di tempo per andare al Trebbia. Pensare che quando gestivo il Castello Malaspina (e quindi avevo le giornate libere) ci andavo quasi ogni giorno. Però non mi sono fatto mancare quelle microgite di mezz’ora, giusto per prendere un caffè o un gelato: Piani del Lesima, Fragolina, Pian del Poggio, Passo Penice.
La vendita in negozio funziona più o meno come a Voghera: bisogna lavorare di più, sbattersi di più, per riuscire perlomeno a guadagnare un po’ meno, altrimenti si guadagnerebbe molto ma molto meno. Dicono che è la crisi. Boh. Gli alberghi nelle località di villeggiatura sono pieni, gli outlet strabordano… quindi non so se questa crisi esiste veramente o se è solo pompata dai media che ci vogliono spaventare.
Sono stato anche in due paesi che non avevo mai visitato: Ferriere in provincia di Piacenza (carino, pieno di gente, un bel paesone) e Santo Stefano d’Aveto in provincia di Genova (sembra di essere sulle dolomiti).
Un saluto a due assidui lettori: Matteo & Maria Evelina.
Monte Lesima 1724 m.s.l.m. |
di Rita Rebolini
Più giù c’è il paesino di Pietranatale. Il suo nome è molto eloquente: una pietra di dimensioni enormi, sola soletta, se ne sta lì in mezzo ai prati. Non si sa bene da dove venisse, né da che parte fosse rotolata. Le case si sono aggrappate attorno a lei, in un girotondo, quasi volessero proteggerla. Veramente è lei che con la sua stazza, la sua compattezza e la sua solida posizione, raccoglie a sé tutte quante le abitazioni piccole e basse rispetto al suo trono. A causa dello spopolamento della montagna, il paese rimase con pochissimi abitanti: migrazioni di massa di persone in cerca altrove di lavori più redditizi. La pietra divenne malinconica perché non sentiva più il vociare dei bambini, né lo stridolio dei carri che trasportavano legname, fieno e frutta.
Un giorno, con la coda dell’occhio, vide passare sulla strada grande alcuni camion carichi di tronchi. Appena più in là erano sorti dei capannoni dai quali provenivano rumori diversi, nuovi. Dentro ai capannoni frinivano motoseghe elettriche, punzoni per spaccare la legna, pulegge per trasportare automaticamente i vari manufatti.
L’enorme pietra sospirò. Ci mise quattr’occhi per osservare quel viavai di TIR che giungevano persino dalla Jugoslavia, talmente lunghi da dover fare varie manovre per guadare quelle curve di strada a gomito, carichi di lunghi e grossi tronchi d’alberi. Talmente immensi che era inverosimile immaginarseli in piedi nei loro boschi.
Ora la mastodontica pietra strizza l’occhiolino, si striglia i baffi, si dà un buffetto sulla guancia e sorride. “Scarpe grosse e cervello fine”. La malinconia è sparita: l’industria ha sopperito all’agricoltura.
E la storia continua…
Brallo: i suoi dintorni di Rita Rebolini
Oggi inizierò a mostrarvi i paesini che stanno ad est di Brallo. Si sa, il giorno inizia ad est, dove spunta il sole. Prima sta l’alba, quella fioca luce che dirada le fitte tenebre della notte e man mano le allontana così bene da poter osservare la vallata sotto una bella schiarita. Dapprima spunta in cielo il chiarore del sole, tanto da far sbiadire quello delle stelle e mostrarci uno squarcio di “infinito” impenetrabile col nostro piccolo ragionevole cervello. Poi i raggi: pochi, chiari, prorompenti su quel cielo mattutino che non è né grigio né azzurro. Infine il bel faccione del sole, non ancora abbagliante, che si lascia guardare così tondo, così pacioccone. È un’emozione. Il cuore ti si allarga, prendi coscienza del tuo essere, del tuo mondo, dell’universo che ti circonda e ti fa chiedere se gli uomini sanno che il sole è vita per tutto il mondo, se si accorgono che il suo sorgere significa un giorno di vita da godere in qualsiasi forma, se sanno che è un dono riconducibile a Dio.
Ora nel cielo non è ancora tutto chiaro, ma quei minuscoli uccellini che stanno sulle piante già cinguettano, un mormorio solo, un inno, un canto al Creatore e non importa se non hanno di che beccare. Poi la luce si diffonde. Luccicano le collinette, i versanti dei monti, appaiono i paesini così belli, così assonnati, così caratteristici da fare seriamente invidia alle invivibili città.
Vi voglio parlare di Pieve. Si dice che si mangi bene e che bene vada anche nel portafoglio. Su un pianoro, in mezzo a prati e boschi, c’è una rovere secolare, grande, grossa, fronzuta. Ogni anno per la festa della Madonna della Guardia (29 agosto), nel periodo migliore delle vacanze e dei raccolti, ai pedi di questa ultracentenaria pianta si celebra la Santa Messa. Accorre gente da tutte le vallate circostanti. È un rituale al quale ciascuno tiene a presenziare. Mentre il celebrante, senza alcun microfono, con paramenti per il minimo indispensabile, prosegue nelle sue funzioni religiose davanti alla statua della Madonna, si possono scorgere bimbi seduti sull’erba, in silenzio assoluto. Nessuno si permette qualche capriccio, anzi si sta lì compiti per tutto il tempo della Santa Messa. Uomini e donne appoggiati ai tronchi degli alberi, statualmente rivolti alla grande pianta, trovano un momento di pausa per poter entrare con tutta l’anima a percepire l’emozione di trovarsi lì, anche in mezzo a gente sconosciuta, e a formare con la mente un magico pensiero di umiltà e fratellanza. Più in là, in bella mostra, la fila dei sindaci (anche in versione femminile), venuti come i Magi da oriente e da occidente. Con le loro sciarpe tricolori, in rappresentanza dei loro concittadini, pur senza parlare, stanno lì a porgere il loro omaggio alla Madonna. A fine cerimonia belli e brutti, piccoli e grandi, come si suol dire, tutti in fila partecipano alla lunga processione che riporta la statua celeste nella nicchia della propria chiesa. Ora la vecchia rovere resta lì, nuovamente sola. Scuote le fronde, chiama a sé tutti gli uccelli e dice loro: “cantate!”
…continua da ieri la storia della chiesa di Pregola.
Il campanile. Il campanile attualea torre fu costruito nel 1934 per sostituire il vecchio campanile "a vela".
Il cimitero. Il primo cimitero era vicino alla chiesa, sul cocuzzolo del monte. Alla fine del 1600 gvenne costruito un nuovo cimitero vicino alla chiesa, ma nel XIX secolo ne fu costruito un altro, quello tuttora in funzione, lontano dal centro abitato.
Sempre tratto dallo stesso libro un piccolo paragrafo dedicato alla chiesa di Brallo:
Chiesa succursale di Brallo. Brallo, diventato capoluogo di comune nella prima metà del XX secolo si trovava sprovvisto di un seppur minimo luogo di culto. Forse influì il fatto che lo stesso paese era ed è diviso fra due parrocchie: la parte ad est dipende dalla parrocchia di Colleri, quella ad ovest è sotto la giurisdizione di quella di Pregola.
Il richiamo turistico che ebbe il territorio dopo la costruzione della strada intervalliva, il benessere che si stava sviluppando dopo la guerra e l’aumento delle auto private che favorì gli spostamenti famigliari, suggerì al parroco don Luciano Faravelli di far costruire la chiesa a Brallo.
Fu costituito un comitato promotore che affiancò il parroco nell’espletare le pratiche burocratiche e per la ricerca dei fondi necessari, composto da Carlo Bottiroli, Angelo Cavanna, Lino Gualdana, Pietro Ravetta e Siro Tordi. Per la progettazione fu scelto l’architetto Enrico Decorato di Milano, il quale presentò una proposta per una chiesa moderna in stile alpino. I lavori iniziarono le 1961, la chiesa fu ultimata nel 1965 e nel 1969 fu benedetto e consacrato l’altare.
(notadiFabio: per altre info su questa chiesa clicca qui)
Fiorenzo Debattisti ha raccolto in un bel volumetto, intitolato "Nascita di Pregola e dell’antica chiesa di Sant’Agata" le sue ricerche sulla vecchia chiesa di Pregola. Queste ricerche hanno portato alla luce alcune interessanti storie della nostra parrocchia. Eccone alcune.
La chiesa è stata costruita dai monaci del monastero di S. Colombano di Bobbio, fondato dal santo irlandese nel 614. Già nel 622 il monastero ricevette una cospicua donazione di terreni da parte dei regnanti Longobardi, tra cui il territorio di Pregola. Per trovare citata la chiesa di S.Agata bisogna aspettare l’anno 862. La chiesetta era sul cucuzzolo della montagna e il paese dovrebbe essere sorto intorno ad essa.I resti di quell’antica struttura sono tuttora visibili sotto alcuni metri dalla vetta in posizione sud-evst. A pochi metri vi si può trovare il fonte battesimale. L’unica mappa che riporta la chiesa risale al 1766, rinvenuta nell’Archivio di Stato di Torino.
Quando i marchesi Malaspina si insediarono a Pregola, costruirono anch’essi il loro castello sulla stessa montagna già occupata dalla chiesa e dal cimitero. Io sono andato tante volte da ragazzino su quella montagnetta, mentre mia mamma sistemava l’orto poco distante dalla Fiat 500 rossa parcheggiata nel prato, e ho sempre creduto che i resti fossero quelli del castello. In realtà, molto probabilmente (visto che non sono rimasti i ruderi), l’antico castello fu costruito dove adesso c’è la parte alta del paese. Un altro fatto non documentato ma verosimile è quello che vede la chiesetta incendiata durante l’assedio e la distruzione del castello da parte di Gian Maria Malaspina (anche se in questo post si dice che era il 1571 e il Malaspina in questione si chiamava Giovanni, invece in questo post è confermato il tutto…). Infatti nel 1576 la Diocesi di Tortona ordina di costruire una nuova chiesa. Ordine che venne disatteso per lunghissimo tempo a causa delle poche risorse economiche del paese.
Nel frattempo era sorto un oratorio, dedicato a S.Rocco, voluto probabilmente dai Malaspina, a poca distanza dalla casaforte fatta costruire copi ruderi del vecchio castello, in posizione più pianeggiante ai piedi della montagna. Verso la fine del XVII secolo questo oratorio fu modificato, ampliato, fino a divenire la nuova chiesa di S.Agata. Pare che i parrochiani non fossero entusiasti di questa soluzione, forse per non oltraggiare la tradizione della vecchia chiesetta, forse per ritrosia verso i marchesi che pretesero dei privilegi in cambio del vecchio oratorio.
La chiesa fu più volte aggiustata e mantenuta, ci furono lavori al tetto e alla sacrestia e, nel 1968, fu demolito l’altare esistente per sostituirlo con uno nuovo rivolto all’assemblea secondo lo spirito della riforma liturgica.
(fine prima parte, domani la seconda)
Su Youtube c’è il canale Oltresentieri, dove ci sono, tra gli altri, numerosi video di riprese effettuate nella zona di Brallo e dintorni. Eccone qualcuno:
Ormai non la fermo più: mia mamma è diventata una blogger! Ecco il suo nuovo articolo:
A nord inizia la Valle Staffora (col suo bacino delle acque) che scende con pendii rocciosi e scoscesi verso Varzi. A sud la vallata del torrente Avagnone, aperta e meno ripida, porta le sue acque nel Trebbia. Divide le due valli il Passo del Brallo. Forse il nome starebbe a significare il vento pungente che sempre spira da una vallata all’altra e che ad ogni passante farebbe pronunciare: “Brrr Brrr”.
Si narra che vi sia passato anche Annibale quando trasferì l’esercito da Cima Colletta al Monte Penice.
Già ai tempi dei sentieri del sale vi erano una bellissima fontana rigogliosa di acque cristalline e due casupole arroccate su un pendio: erano abitate dai Moscardini, i pionieri del luogo che più in basso annotava anche una “baracca” adibita ad osteria. A quei tempi, sui vari passi delle nostre montagne, esistevano ricoveri di quel genere che potevano prestare sostegno ai tanti passanti che a piedi, e magari carichi di merce, andavano da una valle all’altra.
Poi venne la strada!
Dopo il 1930 la camionabile (ferma a “Costa Mora”) fu prolungata fino a Ponte Organasco allacciandosi così alla statale 45 Piacenza – Genova.
Il Passo del Brallo cambiò volto: dai paesini vicini vennero nuovi abitanti. Da Bralello scesero gli Alpegiani e costruirono un grande albergo; i Normanno trasformarono quella catapecchia di osteria in un caseggiato con tanto di muri in pietra, di porte e di finestre. Poi fu la volta di altri trasferimenti dalle varie frazioni. La strada, non più sentiero, ma camionabile, fece appetito a molti. Da Valformosa vennero i Cavanna e i Frattini, da Barostro i Zanardi. Cominciarono le prime costruzioni. Nacquero alberghi, ristoranti, negozi e, in pineta, anche un dancing. Da Corbesassi vennero i Buscone e i Benedini. Aprirono i battenti le officine meccaniche e la falegnameria.
Da Ponti i Tordi costruirono case e negozi e reclutarono clienti da mezz’Italia. I Nobile aprirono negozi di generi alimentari. Da Colleri i Gualdana vennero ad impiantare il forno per il pane e focacce. Da Selva i Balconato allestirono la lavasecco e l’ufficio per le assicurazioni. Negli anni successivi queste immigrazioni continuarono ed il paese crebbe parecchio. Sul passo si installarono: il medico condotto, il farmacista, il veterinario, l’ostetrica, la maestra, il geometra, il calzolaio, la pettinatrice, il collocatore, il sarto, l’orologiaio, il barbiere, la bidella, e altri.
C’è stato un periodo, di alcuni anni, nei quali ha funzionato anche un distaccamento dei Carabinieri.
Brallo diventò capoluogo comunale. La logica porta a notare come in quel periodo si pensò di mettere in piedi l’edificio del municipio, quello delle scuole, la chiesa e venne realizzato un impianto di risalita per la pratica dello sci.
Il paese che non c’era, ora c’è.
Nel 1962 si tenne al Brallo un simposio per analizzare l’aria. Fu constatato che, essendovi molte pinete nei dintorni ed essendo il posto vicino al mare (in linea diretta circa 30 chilometri), il misto di aria così analizzata risulta ottimale, specie per chi soffre di bronchiti.
Anni di progresso, anni di benessere, nugoli di gente che sale al Brallo, nonni e bambini che vengono a prendere l’aria buona.
I residenti costruiscono, affittano, c’è lavoro per le imprese edili, come quelle dei Ravetta,dei Pericotti e dei Normanno.
Si aprono negozi di pelletteria, di alimentari, di elettrodomestici, di cartoleria e di souvenir. Si rimodernano le strutture, si cambiano arredi, si creano pizzerie, gelaterie, sale giochi. Al Brallo ora c’è un commercio fiorente. Aprono i battenti anche la palestra e il cinema e mettono le radici persino due banche.
Passano gli anni. Inizia lo spopolamento della montagna, i giovani (anche laureati) cercano lavoro altrove, le famiglie si diradano, non ci sono più bambini. Le scuole delle frazioni, una dopo l’altra, chiudono. Persino a Corbesassi e a Colleri dove le insegnanti erano due. L’epopea comincia la discesa: ora non tutto funziona come da prospettiva. Chi ne risente per primo sono le discoteche e gli altri centri ludici. Oggi a peggiorare le cose è giunta anche la crisi generale. Ciò nonostante, i longevi abitanti del Brallo, come l’edera, sono abbarbicati alla loro montagna, cercano in tutti i modi di affrontare, alla meno peggio, la situazione. Hanno istallato un distributore di benzina (con self-service), hanno riordinato la piazza centrale, hanno sistemato il gioco delle bocce, hanno provveduto alla realizzazione di campi da calcio e da tennis. La Pro Loco si fa in quattro ad organizzare sagre e ricorrenze, nonché indire dibattiti culturali, balli e cene.
Insomma, cercano in tutti i modi di non far mancare quelle infrastrutture, anche nuove, affinché possa funzionare il centro tennis e il centro benessere.
Il paese che non c’era, ora c’è.
Visitatelo: fatelo a girotondo, vi accorgerete che è il paese più bello del mondo.
Rita
Tratto (a volte liberamente tratto) da “I Malaspina di Val Staffora”, di Guido Guagnini, 1967
(seconda parte)
Esistono due rami. Un primo ramo va fatto risalire a Carlo Malaspina che sposò nel 1697 Lucrezia, figlia del marchese Giuseppe Malaspina di Godiasco, dal quale ereditò alcune porzioni feudali nonché l’elegante, antico palazzo Malaspina di Godiasco, il cui portale reca scolpite in arenaria la leggenda delle origine malaspiniane. Dall’epoca del matrimonio abitò sempre in Godiasco, ove pure dimorarono i suoi discendenti. Carlo ebbe un solo figlio, in seconde nozze, Corrado. Questi morì in giovane età ed ebbe vari figli: Guglielmo, che trovò morte tragica perendo annegato nello Staffora in piena, Giovanni e Riccardo. Quest’ultimo ebbe come figli Giovan Maria e Guglielmo, celibi, e Vittorio che a sua volta ebbe un solo figlio, Corrado. Come vedete ci sono nomi ricorrenti nella genealogia dei Malaspina. I figli di Corrado morirono in giovanissima età ad eccezione della quartogenita, Maria Teresa, nata nel 1891, che si fece suora ed è tuttora vivente (in realtà, in base alle mie fonti, è morta negli anni ’80 del secolo da poco terminato. Il libro del Guagnini è del 1967).
L’altro ramo della famiglia fu originato dal marchese Giuseppe nel XVII secolo. Giuseppe fu padre di Baldassarre che ebbe a sua volta un figlio, Antonio, che abitava in Pregola nel signorile palazzo della sua famiglia e che era in ottime condizioni finanziarie e che, anche dopo la soppressione dei feudi, aveva conservato ampi possessi fondiari in valle Staffora e in valle Trebbia; possedeva inoltre il bel palazzo di Varzi, ora sede del Municipio.
Il marchese Antonio ebbe due figli: Teresa e Baldassarre, nato nel 1826, che sposò Teresa Muzio di Varzi e che fu padre di Antonio e Rodolfo. Antonio, celibe, morì in Varzi nel 1923. Rodolfo, avvocato, aveva sposato la sua servente ed amante perché fu minacciato dai parenti di lei non volendo regolarizzare la sua posizione, ma non ebbe figli e morì l’anno dopo improvvisamente. Fu l’ultimo maschio dei marchesi Malaspina di Pregola.
Il castello antico di Pregola sorgeva sulla rupe posta all’ingresso del paese e fu distrutto nel 1571. Con in materiali ricavati si costruì l’attuale palazzotto, impropriamente detto castello. Nella sala principale del palazzo cinquecentesco vi è un bel camino scolpito e sopra di esso si vede il grande stemma dei marchesi Malaspina di Pregola che risulta così inquartato: nel I e nel IV di rosso, alla aquila bicipite coronata d’oro sulle due teste; nel II e nel III d’azzurro, allo spino secco, sorgente da una montagna di nero, afferrato da destra dal Leone Bianco rampante in posizione eretta e coronato d’argento. (Purtroppo è andato distrutto)
Pregola assume per lo storico un’importanza eccezionale perché può essere presa come archetipo del costituirsi del paese signorile della valle Staffora. Anticamente il feudo si estendeva molto verso mezzogiorno e comprendeva torri e castelli che le numerose divisioni fra i membri della famiglia ridussero sempre più, finchè cessato di essere marchesato autonomo, nel 1879 fu aggregato di fatto al marchesato di Santa Margherita.
Pregola fu senza dubbio la tappa del primo affacciarsi dei Malaspina sulla valle Staffora, considerata come il solo itinerario rapido per raggiungere le fertili pianure del Po. Pregola fu scelta come sede propizia a guardia del valico, con funzioni di controllo e con diritto di pedaggio, fonte prima della ricchezza del signore.