Partecipare a un corso di teatro è sempre stata una di quelle cose che mi ispirava e, come direbbe tanta gente “mi mancava pure questa“. Qualche anno fa ci avevo fatto un pensierino, ma poi non se n’era fatto niente. A settembre dello scorso anno invece io e Valentina ci diciamo: perché no? E poi c’è sempre la prima lezione gratuita che ti invoglia. E così siamo rimasti, ogni lunedì appuntamento fisso per un paio d’ore. Imparare a conoscere sé stessi, le proprie emozioni, il proprio corpo, l’uso del proprio corpo, l’uso del proprio corpo guidato dalle proprie emozioni.
Così fino a febbraio. Poi abbiamo iniziato ad allestire lo spettacolo di fine corso.
Ho scoperto un bel gruppo. Partiamo dalla nostra coach, la nostra insegnante, che poi è stata anche regista, scenografa, sceneggiatrice, e quant’altro: Michela. Ci ha amalgamato, ci ha capito e ha cercato di tirare fuori il meglio di ciascuno di noi, senza troppe forzature, solo con pazienza ed insistenza. Poi i ragazzi che abbiamo trovato già lì e che a poco a poco, settimana dopo settimana, abbiamo iniziato a conoscere: Chiara che quando si muove pare danzare, Francesco che ne combina sempre una, Valerie che sembrava un agnello e invece era una tigre, Stefania che sembrava tutta d’un pezzo e invece aveva tante paure (che ha superato), Moreno che non impara mai le battute, Elisa che a me pare la più brava tra di noi. E poi i ragazzi che ci hanno raggiunto in corsa, ma che sono subito entrati “nel gruppo”: Paola che all’inizio sembrava timidina e Simone che non sembrava (e non è) per niente timido. E infine Jennifer, che anche se era nel corso permanente (quello avanzato) è in pratica una di noi.
Ci siamo conosciuti, ci siamo divertiti, abbiamo scoperto cose di noi che non sapevamo e abbiamo imparato qualcosa. E abbiamo riso tanto. Lo spettacolo finale si è chiamato “Agilulfo” perchè tratto da “Il Cavaliere Iniseistente” di Calvino che narra le gesta del cavalier Agilulfo. Alcune battute non le scorderò mai. Secondo me siamo stati bravi: uno che non aveva mai letto il libro probabilmente non capiva niente della storia, ma alcuni momenti sono stati veramente esilaranti. Grazie a tutti.
La pineta di Brallo e, sullo sfondo, casa mia. È stato il luogo più frequentato durante la mia infanzia e adolescenza. Si sta bene: silenzio, arietta, qualche passero e qualche grillo
Da bambino andavo da mio papà a farmi dare cento lire. “Mi dai centolire?” Era la mia “paghetta” giornaliera. Molti di voi penseranno che a quell’epoca cento lire fossero comunque una discreta sommetta. E invece no, erano pochine. Potevi permetterti un ghiacciolo, una partita ai videogames o, come spesso accadeva, una canzone al juke-box. La mia preferita nell’estate del 1983 era Vamos a la playa, dei Righeira, che quando mi dicevano che erano italiani io non ci credevo.
Andavo al Bar Cavanna e aspettavo un po’, per vedere se qualcuno prima di me l’avesse per caso già scelta, e in quel caso sarebbero state cento lire risparmiate. Quando, dopo 5 o 6 canzoni, non sentivo la “mia”, mi arrendevo, mettevo la mia monetona nella fessura e pigiavo quei grossi tastoni del macchinario. Mi stupiva sempre il fatto che ci fossero anche le lettere “straniere” ed era una figata quando la canzone scelta era del tipo “J8” o “K3“.
Quando un disco finiva, smetteva di girare e il meccanismo lo prendeva per riporlo al suo posto. Se qualcuno aveva scelto una nuova canzone, tutto ripartiva: i dischi scorrevano finché la mano meccanica sceglieva il vinile richiesto, lo alzava, lo girava orizzontale e lo riponeva sul giradischi. Arrivava la testina, si abbassava e…zac, dalle casse ecco la tua canzone.
I grandi successi stavano nel juke-box anche un anno, le canzoncine estive solo per pochi mesi. I nomi dei cantanti e i titoli delle canzoni erano scritte su un’apposita etichetta, ma talvolta capitava che fossero scritte a mano, chissà perché. Magari il fornitore di dischi non forniva l’ etichetta per il “giùbocs“, oppure il disco in questione non era destinato a tale uso e allora il barista doveva scriverlo a biro.
Mi capita una sera che sono a Brallo, entro in casa e la prima cosa che penso è: chissà se Milli è in casa o ancora in giro? Poi mi viene subito in mente che Milli non è in giro e neanche in casa. Purtroppo da ormai 3 mesi il tempo di Fabio e Milli è finito. Una sera è uscita di casa e non è mai rientrata: investita da un’auto? Chiusa in qualche cantina? Rapita di proposito? Salita per sbaglio su un furgone e abbandonata chissà dove? Morta di qualche malattia, nascosta dove nessuno poteva vederla? Chissà. Tutto potrebbe essere. A me piace pensare che se ne sia andata, che abbia preso il suo fagottino in spalla e abbia pensato: caro Fabio, in fondo sono 11 anni che ti conosco, ne abbiamo passate davvero tante, ma adesso è ora che io vada verso nuove avventure. E poi penso a quando mi ha scelto, in mezzo a una dozzina di altri micetti, a quando tornavo a casa e lei mi veniva incontro già 200 metri prima, alle graffiate che mi ha dato durante le lotte, a quando dormiva in vetrina a Brallo o nelle scatole di scarpe a Voghera. La conoscevano tutti Millicent, la conoscevano come “Milli“.
Quelli che mi hanno detto “mi spiace”, quelli che mi hanno aiutato a cercarla, quelli che mi hanno detto “te la sei cercata“, quelli che hanno attaccato locandine, quelli che la conoscevano e la apprezzavano per la sua libertà e il suo amore per tutti. L’ho detto tante volte, io non sono il padrone di Milli, Milli non ha padroni, è e sarà sempre un essere libero. Per questo mi piace pensare che sia “sparita” da gatta libera, andando verso il suo destino, qualunque esso possa essere. Quelli che le davano del cibo, quelli che la prendevano in braccio, quelli che dicono che avrei dovuto tenerla chiusa, quelli che hanno stampato, girato, osservato, telefonato, scritto. E penso a quando faceva le coccole a mia mamma (tant’è che il giorno in cui è morta, Milli si è seduta sulla sedia a fianco alla bara, se ci fosse ancora bisogno di spiegarlo a quelli che dicono che i gatti sono anaffettivi), alle mille volte in cui è “scappata” (una volta dall’auto in movimento, e me ne sono accorto solo dopo qualche chilometro, un’altra volta sparita da casa per arrivare poi in negozio), ai suoi dispetti, alla sua gelosia, a tutte volte che mi veniva addosso con le sue zampacce sempre sporche. Bye bye Millicent, buona fortuna.
Sono fortunato. Sto bene, non mi manca niente, e c’è il sole 🌞 ” Guarda che cielo che hai, guarda che sole che hai, guardati è guarda cos’hai e…guarda dove vai!”
Il canto narrativo al Brallo e la sua ritualizzazione
I canti narrativi vengono detti al Brallo (come un po’ ovunque) fatti, senza naturalmente far distinzione fra quelli antichi e quelli recenti, da cantastorie. I fatti sono considerati racconti di storie realmente avvenute. Eva Tagliani diceva: “Le canzoni hanno un significato d’una cosa ch’è successo“. Alcune delle storie esposte nei fatti vengono localizzate in zone vicine. Il canto aveva (e in parte ha ancora) un’importanza fondamentale nella vita sociale della comunità. Il canto narrativo in particolare ha goduto d’un ruolo di alto rilievo così da venir integrato in diversi momenti rituali dell’anno: nozze, feste religiose, carnevale. Nel rito matrimoniale, per esempio, veniva integrata La sposina (frammento della ballata Sposa per forza), cantata e suonata dal corteo di invitati e musicisti (il piffero era lo strumento obbligato ai matrimoni) che accompagnava la sposa dalla sua casa a quella del marito. Il canto Le carrozze son già preparate, invece, veniva cantato alla giovane coppia durante il pranzo nuziale. La ritualizzazione dei canti narrativi non era però limitata, al Brallo, al momento nuziale o alle situazioni religiose (novene natalizie, canti agiografici, ecc.), ma soprattutto trovava spazio nel carnevale. Il teatro carnevalesco era, al Brallo, “serio” e per nulla burlesco o farsesco. Fino a circa trentacinque anni fa al Brallo la tradizione voleva che i giovani, (un tempo soltanto i maschi, poi anche le femmine), dai sedici ai vent’anni, soprattutto di Feligara e di Colleri (e più di rado di paesi fuori del territorio comunale), facessero la “mascherata“, cioè drammatizzassero, in costume ma senza maschera sul viso, un canto narrativo, un fatto. Questa drammatizzazione si distingueva dalla “recita”, così come si distingueva dai travestimenti burleschi spontanei (per esempio il “mulita“, cioè l’arrotino, il “magnano“, cioè il calderaio, ecc.), pur presenti. La performance ambulante dei giovani veniva inserita nel contesto di una questua che raggiungeva tutte le frazioni del comune. Un mese prima della “mascherata”, durante le veglie, i giovani si consultavano per scegliere il fatto da rappresentare e si assegnavano poi le parti. Si iniziavano poi le prove che avevano luogo ogni sera, per circa un mese. Circa venti-venticinque giovani potevano partecipare: parti principali, parti secondarie e coro. C’erano poi i musicisti, piffero e fisarmonica, e due questuanti che portavano uno un cestino, per raccogliere le uova, uno un sacco, per metterci la farina. Le performances duravano tutta la settimana prima di carnevale, con la visita di tre o quattro gruppi d’abitazioni al giorno. Entrando nell’abitato, uno della compagnia, annunciava, suonando una conchiglia, l’arrivo della “mascherata”. Lo spettacolo durava tra la mezz’ora e i tre quarti d’ora (con qualche eccezione di spettacoli più lunghi : per esempio Isabella durò più d’un’ora). Il dramma cantato non era di solito accompagnato dagli strumenti. I musicisti intervenivano soltanto in quei casi nei quali la loro presenza era richiesta dal testo o dalla situazione drammatica (per esempio nella E l’ui bella l’è là sul mar, dov’è previsto dal testo un ballo) e suonavano alla fine dello spettacolo, mentre i questuanti raccoglievano le offerte. Eva ricordava che nella sua giovinezza solo gli uomini partecipavano alle “mascherate” e il fatto preferito era Cecilia. Ma già all’età di diciassette-diciannove anni, Eva potè far parte degli spettacoli carnevaleschi, nel coro (Pierina), come una delle sorelle (Fernanda e Bortolino) e infine come protagonista (E l’ui bella l’è là sul mar). Il travestimento maschile e femminile era reversibile: personaggi maschili potevano essere interpretati da donne e viceversa. Da più informatori la solennità e l’assoluta serietà della “mascherata” è stata confermata. Il dramma commuoveva profondamente il pubblico, che partecipava anche piangendo ai momenti -più tristi e drammatici della storia. Le ballate più arcaiche di tradizione orale formano lo strato “vecchio” delle “mascherate” del Brallo. Le generazioni più giovani hanno introdotto canti più recenti, soprattutto da cantastorie, desunti da libretti popolari e da fogli volanti (per esempio Teresina e Eugenio [il brano non è compreso nel disco], Isabella e Ferruccio). Negli ultimi anni, varie modificazioni, anche molto evidenti, sono intervenute nelle “mascherate” del Brallo. L’adozione dei testi moderni da cantastorie hanno portato alla progressiva sostituzione del discorso diretto e in molti casi interamente dialogato tipico delle ballate arcaiche con il discorso indiretto e “narrativo” delle “storie” offerte dai fogli volanti. In tal modo il canto a solo si è aperto ad una maggiore partecipazione del coro “narratore”. L’ammissione di alcune donne già aveva indotto delle trasformazioni. Nel tempo la percentuale fra uomini e donne si è addirittura invertita, così da trasformare la “mascherata” in una manifestazione posta prevalentemente nel dominio femminile. Infine essa è diventata manifestazione infantile, con i bambini mascherati secondo modelli standard ed è caduto il canto. Tale discesa nella gerarchia sociale (dagli uomini alle donne ai bambini) è sintomatica della progressiva perdita di vitalità e di funzionalità della tradizione. Oggi per gli adulti sarebbe impensabile continuare la tradizione della “mascherata” (guai se qualcuno si mette a girare a cantare). Da segnalare anche che nelle ultime mascherate effettuate era aumentata, attraverso la scelta dei testi, la condanna delle ingiustizie sociali.
A me “piace” essere sempre in movimento, avere sempre mille impegni e mille cose da fare (e non riuscire mai e poi mai a farle tutte, anche perché ovviamente mentre le fai se ne aggiungono altre). Senza, probabilmente, mi sentirei un po’ perso e annoiato. Però è bello e doveroso ogni tanto fermarsi e farsi scivolare via tutto e godersi l’attimo, senza pensieri.