Il potere benefico di un abbraccio. Puoi essere povero, ricco, puoi essere giovane, ingegnere, biondo, australiano, sposato, vecchio, carrozziere, ligure, scorbutico, ammalato, induista, puoi essere donna, ricciolo, pittore, timido, taxista, primario, basso, sovrappeso, puoi essere chiunque, ma un abbraccio fa sempre bene.
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Tutto quello che non rientra nelle altre categorie
Girare il mondo è bello, ma ancora più bello tornare dalla mia famiglia.
#bepositive #famiglia #milano
Ci sarà un po’ di me in te.
Non parlo di geni, parlo di quello che cercherò di insegnarti. Dicono che sia il mestiere più difficile del mondo; di sicuro è uno dei più belli.
Ho letto questo libro, “Oltrepò Pavese le 100 meraviglie (+1)” con testi e ricerche di Raffaella Costa e foto di Marcella Milani.
Che dire, viviamo in un posto bellissimo e come al solito fatichiamo a rendercene conto. Per fortuna in nostro aiuto arrivano pubblicazioni come queste.
Marcella ci porta, tramite le sue foto, in un mondo magico, a volte facendolo vedere bene, a volte mostrandone solo uno scorcio o un piccolo particolare, facendo così aumentare ancor di più la voglia di vederlo, di visitarlo, di viverlo.
Raffaella ci racconta, ci porta indietro nel tempo nella storia, ci spiega, ci incuriosisce, ci guida, ci fa sognare.
Dal Museo del Cavatappi ai campi di lavanda, da Rovaiolo Vecchio alla fontana Missaga, dalle balze di Guardamonte alla chiesa di San Ponzo, e via così per cento (+1) particolarità del nostro territorio, che ne avrebbe altre cento se non altre mille ancora da scoprire, da fotografare, da raccontare.
…e poi scopri il BORLENGO.
Quelle giornate un po’ uggiose, nelle quali se fossi a casa te ne staresti volentieri sotto le coperte, quelle giornate in cui non capisci se piove o scarnebbia e quel freddolino, invece di tenerti sveglio, ti fa venire ancora più voglia di ritornare in auto col riscaldamento a palla e i soffioni che ti coccolano mentre torni a casa.
Ecco, in una di quelle giornate di capita di passare da Bologna e ne vorresti approfittare per fermarti in centro e fare due passi nella città delle cento torri (si, lo so, anche Pavia è chiamata così, ma anche Ascoli, Asti, Albenga, Viterbo, San Gimgniano, ecc, non siate così campanilisti).
Caspita: piove, pioviggina, spioveggia, c’è freddo, e le telecamere della ZTL occhieggiano minacciose, invitandoti a lasciare l’auto a chilometri dal centro. Va beh, niente passeggiata, niente Piazza Maggiore.
“E meno male che briganti come me qui non ce n’è
A modo mio avrei bisogno di carezze anch’io
Avrei bisogno di pregare Dio
Ma la mia vita non la cambierò mai, mai“
E allora che si fa? La tecnologia ci viene in aiuto e l’immancabile Google Maps ci consiglia un locale a Casalecchio di Reno. E’ anche pizzeria e già mi pregusto una “prosciutto e rucola” annaffiata da una birra bionda. Dieci minuti e ci siamo. Il dio degli automobilastri ci fa trovare parcheggio proprio davanti e la dea della fame fa in modo che il localino, che ha pochissimi posti a sedere, abbia un tavolo appena lasciato libero. Ci rendiamo subito conto che non è un ristorante (perlomeno non nell’accezione classica del termine, ma sicuramente in quella letterale), né tantomeno una pizzeria, ma serve solo borlenghi. Infatti si chiama “L’arte del borlengo“.
La signora subito illustra a noi poveri viandanti ignoranti di cosa si tratta: un cibo povero che ha la sua origine dalle parti di Zocca (si, dove abita il Vasco), fatto con acqua, latte, farina e sale e farcito con salumi e formaggi.
Come dice Valentina: l’Italia è stupenda e dovunque tu vada, mangi bene.
W l’Italia e w il borlengo!
Ho letto questo libro,”Il grido degli Halidon“, di Robert Ludlum, una specie di spy story ambientato quasi interamente in Gaiamaica.
Non mi ha fatto impazzire. E’ un libro che Ludlum aveva pubblicato sotto pseudonimo nei primi tempi in cui era famoso, e l’editore non voleva che uscissero troppi libri per non saturare il mercato.
Troppi nomi, troppi personaggi, troppo incasinato. Troppa roba e poca sostanza. Ne ho letti di molto migliori scritti da lui, infatti ci ho messo una vita a finirlo.
Ambarabà ciccì coccò
tre civette sul comò
che facevano l’amore
con la figlia del dottore.
Il dottore si ammalò…
ambarabà ciccì coccò
Quest’anno per 4 volte ho scritto un cartello “Chiuso” sulla porta del mio negozio.
La prima volta per la festa più grande: il matrimonio con Valentina. Come tradizione vuole, il “giorno più bello“. L’abbiamo pensato nel 2019, l’abbiamo sempre rimandato, perché volevamo fare una supermegafesta, così come è stata, con tanti amici. Non è stata una passeggiata, siamo arrivati lunghi e tante cose che volevamo fare non le abbiamo fatte, ma va bene così: la perfezione è noia e noi invece ci siamo divertiti da matti. Una festa stupenda che ha suggellato un amore stupendo.
La seconda volta ho scritto il famoso (mio malgrado) “chiuso per paura“. E’ stato un anno difficile, non lo nego. Anzi, lo rivendico, con forza, per quelli che “tanto a te va sempre tutto bene“, o per quelli che volevano o vogliono derubricare il tutto a una semplice ragazzata o addirittura a una litigata, quand’anche il dizionario insegna che per litigare bisogna essere in due, quando invece nel caso ci sia un accanimento in una sola direzione il termine corretto è un altro. E’ stato un anno e mezzo difficile, di tensioni, di paure. Fossi stato libero e da solo, sarebbe stata tutta un’altra storia, ma con una moglie e un figlio cambia tutto: la prima preoccupazione sono loro e, credetemi, l’angoscia era tangibile (nulla mi toglie dalla testa che il ricovero di Valentina, a pochi giorni dal matrimonio, sia dovuto anche a questa tensione per la situazione vissuta). Stare chiuso dentro al MIO negozio, telefonare a casa all’orario di chiusura per dire se tardavo qualche minuto, fare percorsi diversi ogni volta, sempre con in tasca lo spray antiaggressione, avere addirittura quasi in odio lo stare a Voghera (città che mi ha adottato nel 1988). Tutto ciò in Italia, nel 2022? E qualcuno che ancora dice “non è successo niente“. Dopo un anno in cui ci tenevamo tutto dentro, quel cartello è stato anche liberatorio e ha innescato una serie di dimostrazioni di solidarietà e di amicizia che ci ha fatto sentire bene, ci ha fatto capire che il mondo non è tutto cattivo, che noi non eravamo paranoici e che tante persone ci vogliono bene. Speriamo che sia tutto alle spalle.
La terza volta ho tenuto chiuso per lutto, quando ho perso mio fratello Ivo. I nonni (io ne ho avuto uno solo) li vedi sempre come dei “vecchi” e sai che prima o poi potrebbero andarsene. I genitori vorresti che non se ne andassero mai, ma è purtroppo ineluttabile. Un fratello è diverso, non credi mai che possa succedere. Ho perso un altro punto fermo della mia vita, dopo mia madre, Daniele, mio padre. E’ stato talmente improvviso che ancora fatico a rendermene conto.
L’ultima volta ho chiuso per il battesimo di Nicolas. Una nuova vita, un messaggio di speranza, un bambino dagli occhi blu color del cielo, un bel messaggio di speranza per questo duemilaventitrè.
E’ passato qualche annetto…
A volte mi sembra di essere in un fumetto….
Oh, mamma stasera esco prendo la moto, sì, ma senza casco. Andiamo in centro, viene anche Vasco. Torno tardissimo, fuori fa fresco. Si che sto attento, io son mica matto, è tutto a posto, vai, tu vai a letto…
Che bella sorpresa: sull’ultimo numero di “Quattro piccole ruote” (mensile del Fiat 500 Club Italia) c’è una paginetta dedicata al matrimonio di Fabio & Valentina !
Siamo o non siamo belli?
Fabio, Valentina, Leo e Thor hanno fatto un bel giretto, scendendo da Brallo verso la Montagnola, tornando verso il cimitero di Pregola, il Centro Tennis e poi la faggeta raggiungendo il rifugio e scendendo ancora a Brallo dalla pinetina.
Eri piccola… piccola… piccola…. così!
Google mi ricorda che sono passati 19 anni da quando io e la Rita andammo a Bruxelles. Io fino a poco tempo prima non ero praticamente mai stato fuori dall’Italia, vuoi perché i miei non erano soliti andare da nessuna parte, vuoi perché non avevo una compagnia di viaggiatori.
Erano gli anni del boom delle compagnie low cost e allora andai prima a Londra “in giornata” (in realtà andai un giorno e tornai il successivo), poi andai a Berlino con amici, poi mia mamma mi disse: perché una volta non porti anche me? E allora organizzai per Bruxelles. La scelta fu dettata dalle nostre disponibilità di giorni (quindi ovviamente non nel weekend) e dalla destinazione che in quei giorni costava meno.
Ricordo che girammo tanto a piedi e vedemmo un sacco di cose, la Rita era la mia compagna di viaggio ideale. Mangiavamo dove capitava, un panino, un tramezzino, ma poi lei si ostinava a voler bere un caffè, e tu spiegale che fuori dall’Italia il caffè è gramo e costa caro: ogni volta lo chiedeva e poi si lamentava del fatto che fosse “una brodaglia” e gli fosse servito con un cucchiaino grande.
Ricordo che durante uno di questi giri trovò, abbandonati da un cantiere, una decina di viti enormi, circa una ventina di cm di lunghezza per un diametro di 3, 4 e a tutti i costi volle portarsi (anzi farmi portare) dietro quel fardello per tutto il giorno perché “poi mi servono”.
Negli anni successivi andammo insieme a Budapest, Vienna, Praga, Atene. Era molto curiosa la mia mamma, molto interessata a quelle piccole differenze nel modo di vivere che si potevano riscontrate all’estero. Nella sua vita, nata molto povera, per esigenze di soldi, poi di famiglia e di lavoro, non aveva mai visto le città straniere e se aspettava che la portasse suo marito… (lui stava bene solo nel suo negozio)
Quando tornammo da Bruxelles, alla dogana belga la fermarono e la portarono in una stanzetta. Lei per niente preoccupata gli parlava in italiano. Io la seguii, spiegai che ero il figlio e cercai di capire cosa fosse successo: avevano trovato le mega viti nella valigia a mano! Allora le imbarcarono dentro alla borsa frigo che la Rita non si faceva mai mancare nelle gite. A Milano la gente si stupiva che sul nastro dei bagagli fosse spuntata, in mezzo alle valigione, una borsina frigo, con la cerniera rotta, e dentro una decina di viti di dimensioni enormi.
Anche questa era la Rita, mia mamma.