e dopo 11 anni, quando sono da qualche parte o quando leggo qualcosa, mi ritrovo a pensare: QUESTO DEVO DIRLO ALLA MAMMA!
Quando c’è qualcosa di stravagante, o di antico, o di interessante, o di scientifico, o di caratteristico, il mio primo istinto è di parlartene quando arrivo a casa. Poi mi rendo conto che te l’ho già detto, in quel preciso istante, e che tu mi hai appena fatto un cenno di consenso. C’è tanto di te, in me.
Ci svegliamo ancora storditi dallo “Stato di leggero malessere psicofisico (stanchezza, sonnolenza, senso di stordimento, ecc.), generalm. avvertito dopo un lungo viaggio in aereo per il rapido cambiamento di fuso orario.” (Treccani, sta per “jet lag”) e tentiamo una colazione al vicino Starbucks, dove inizio ad avere il leggerissimo sospetto di non capire una mazza di quello che dicono negli USA.
Raggiungiamo il parcheggio “Toy Story” di Disneyland tramite autostrada. Eh si, Los Angeles è talmente enorme che per spostarsi da un punto all’altro ci si muove in autostrada. Tecnicamente il nostro albergo non è a LA, ma a Harbor City, mentre Disneyland è a Anaheim, ma nella pratica è tutta Los Angeles, senza soluzione di continuità, una città immensa, pare che sia 88mila km quadrati.
Da lì ci portano con la navetta fino al parco. In realtà sono DUE parchi, uno di fronte all’altro. Il primo è Disneyland in senso stretto, quello fondato da Walt Disney, il primo al mondo, l’altro si chiama Disney’s California Adventure. Tutte le guide che ho letto consigliano, se non l’hai già visto, se hai una sola giornata, se hai bambini, di visitare IL PRIMO. Iniziamo con lo sfatare un mito: Disneyland è SOLO quello di Los Angeles. Quello di Orlando, in Florida è il Walt Disney World (conosciuto anche come Disneyworld), poi c’è Disneyland Paris (conosciuto anche come Eurodisney), poi c’è quello di Tokyo, Hong Kong e Shanghai.
Ovviamente, con Leo, abbiamo visitato tutte le giostrine subito vicine all’entrata, che sono le prime e le più adatte ai bimbi piccoli, relative a Pinocchio, Alice, Peter Pan, Mary Poppins, ecc. Dopo averne provata anche qualcun’altra e aver preso due bottigliette d’acqua per l’economico prezzo di 10 dollari, ci siamo resi conto che si faceva tardi (il tempo vola in quei luoghi, tra file, toilette, negozietti, ecc.) e ci siamo spostati verso l’area dove avremmo dovuto incontrare il mondo di Topolino. Leo si è divertito come un matto al parco giochi (visto? Per far divertire i bambini spesso non serve sorvolare l’oceano) poi, dopo un’infinita coda per salire su un trenino, appena saliti il suddetto treno si è guastato e quindi siamo dovuti uscire. I classici personaggi che si vedono nelle pubblicità tipo Topolino, Paperino, Minni, Pluto, non li abbiamo visti
Erano quasi le sette di sera, abbiamo raggiunto l’area Star Wars (per far contento il papà), ma proprio durante la fila per entrare nel Millenium Falcon, Leo si è addormentato. Non ci hanno lasciato scelta: non si poteva tenere in braccio, quindi o uscivamo o avremmo dovuto legarlo da solo sul seggiolino davanti. Da bravi genitori cosa abbiamo deciso? Ma di lasciarlo da solo naturalmente! Capiteci: la Flotta Imperiale ci era alle calcagna, non potevamo fare altrimenti!
Leo si è vendicato non svegliandosi più e così ho dovuto portarlo in spalla fino all’uscita e poi fino alla navetta. Credo che possiamo dire di aver visto forse meno di un terzo dell’intero parco.
Ho letto questo libro: “Risottimo“, di Stefano Calvi e Paolo Calvi.
Come si può immaginare dal titolo, l’argomento è il risotto. Ci spiegano come il riso è passato da mangime per animali ad alimento base per ricette sopraffine. Ovviamente spiegano anche come preparare un buon risotto, anzi un ottimo risotto: il brodo, la carne, la verdura, il soffritto, la sfumatura, la cottura, la mantecatura, ecc.
E per finire alcune meravigliose ricette.
Un libro che ti fa venire assolutamente il languorino
Per prima cosa le autostrade non si pagano, salvo rarissimi casi. In ogni caso non esistono caselli né in entrata né in uscita. Molto spesso le strade extraurbane sono talmente dritte, ampie e lunghe, che è come se fossero autostrade. I limiti di velocità sono variabili e sono sempre indicati dai cartelli. Soprattutto sulle strade extraurbane bisogna fare attenzione in quanto, dopo magari decine di miglia nel nulla più assoluto si attraversa un centro abitato e i limiti possono passare da 70 a 25 miglia orarie, o magari ci si può trovare davanti ad un semaforo rosso!
Un’altra particolarità delle strade è che molto spesso hanno una dimensione variabile: ci sono due corsie, poi magari diventano 3, poi 4, poi tornano a 2. Spesso alcune strade “infinite” hanno 3 corsie e quella centrale viene usata, alternativamente, per i sorpassi e quindi si passa da una a due corsie di marcia in modo alternato ogni tot miglia.
Un mito da sfatare è quello che i limiti di velocità sono sempre rispettati da tutti. Non è assolutamente vero. I primi giorni ero spaventato dai racconti di poliziotti nascosti dai cartelloni pubblicitari pronti a puntarti l’arma in faccia se superavi anche di un solo miglio i limiti, e quindi li seguivo rigorosamente. Poi mi sono reso conto che così facendo mi superava anche il carretto dei gelati e sono diventato un po’ più “elastico”. C’è da dire che quasi nessuno rispetta i limiti, ma praticamente nessuno “esagera”. Mi spiego: se c’era il limite di 65, andavano quasi tutti a 70 o 75 al massimo a 80. Se c’era 35 andavano a 40 o 45, ma non vedevi mai nessuno sfrecciare via. Quindi furbini sì, disgraziati no.
Sulla striscia continua invece nessuno transige: spesso su quelle strade infinite, quando arrivava dietro un tizio che andava più veloce di me mi stava dietro, su una strada dritta nel nulla, dove per chilometri dietro non c’era nulla e per chilometri davanti altrettanto, finché non aveva la possibilità di superare o finché io non accostassi volontariamente. Non una volta ho visto dei sorpassi non consentiti.
Altre due regole che ho dovuto imparare: è consentito superare a destra. Questa regola, a mio parere, contribuisce a non bloccare mai il traffico sulle arterie più congestionate. Non mi è quasi mai successo di dovermi fermare o rallentare. Vi spiego: ci sono 4 corsie, tu sei nella corsia numero 2. Quello davanti a te va più piano? Ti sposti nella 1 o nella 3, stop. Senza nessun problema. E poi non “rientri”, non ce n’è bisogno, stai nella nuova corsia. Se qualcuno arriva dietro ed è più veloce, si sposterà. Avete presente quando qui da noi c’è un leggero rallentamento e TUTTI stanno in terza corsia contribuendo a rallentare ulteriormente il traffico? Lì non succederebbe.
Ai semafori, se non ci sono cartelli che lo vietano espressamente, si può girare a destra anche col semaforo rosso. Ti devi, ovviamente, fermare, poi guardare che non arrivi nessuno e infine ti puoi immettere. Un enorme vantaggio di tempo. Molto molto comodo.
Invece sulle autostrade devi stare molto attento a non stare sempre sulla destra, in quanto ogni tanto, per uno svincolo o un’uscita, la corsia più a destra diventa la corsia di uscita e se sei distratto e non te ne sei accorto ti ritrovi fuori oppure in direzione sbagliata. Questa cosa mi faceva sempre infuriare.
Alta particolarità: quando incontri uno “STOP” devi fermarti (e fin qui tutto normale), ma non devi dare precedenza a quello che viene da destra o che è sulla strada principale. Semplicemente partirà per primo quello che era arrivato allo stop per primo. Geniale (in Italia però non lo rispetterebbero in molti)
Se invece arrivi dove c’è uno scuolabus (in giro ne ho visti tantissimi) che ha i lampeggianti accesi (per indicare il carico/scarico di bambini) NON puoi assolutamente superarlo, pena il ritiro immediato della patente.
Ti voevi andà a Rapallo e t’ho portò a Rapallo Ti voevi andà a Snremu e t’ho portò a Sanremu Ti voevi andà a Fegin e t’ho portò a Fegin Ti voevi andà a Casela…
In passato alcune persone hanno cercato di farmi sentire sbagliato, a tal punto che ho creduto che la felicità sarebbe stata nel diventare non-sbagliato.
Invece sono rifiorito, come le margherite a primavera.
Arriviamo all’aeroporto di Los Angeles ovviamente storditi dal jet lag e con le nostre mille valigie (in realtà “solo” 4, più tre zaini) cerchiamo, non senza fatica, il bus che ci porta al noleggio auto. E’ sera, dopo la fila al desk finalmente ci fanno scegliere il nostro mezzo. Io avevo scelto come categoria un SUV di taglia media, per stare più comodi coi bagagli e per affrontare meglio i deserti che ci attendono, ma qui scopro subito il primo VERO MITO americano: “quello che per noi è grande, per loro è medio, se non piccolo”. Infatti ci prospettano tre macchinoni. Ad una prima occhiata io e Valentina vorremmo optare per quello rosso, decisamente da maranza, ma era targato “Colorado”, uno stato che non avremmo neppure visitato, quindi la scelta va su un Toyota 4runner, una bella bestia.
Prima difficoltà: io non avevo MAI guidato un’auto con le marce automatiche, escludendo qualche centinaio di metri con una Smart di un amico, durante i quali ho premuto il freno credendo che fosse la frizione e a momenti mi faccio tamponare. So, dai film americani, che P sta per Parcheggio, R per Retro, N per folle. Mi mancavano S e D. Provo S, la macchina va. Ottimo. In seguito scopro che S sta per “Sport” e quindi una guida un po’ più grintosa e con maggiori consumi, in alternativa a D, che sta per “Drive”, la guida “normale”.
Mi ripeto mentalmente di NON muovere per nessun motivo la gamba sinistra e imbocco l’autostrada. Non ero pronto ad affrontare il modo di guidare americano tutto in una volta, soprattutto dopo 15 ore su un paio di aerei, stanco, al buio (ormai erano le 8 di sera), e su una strada trafficatissima. Gente che mi superava da tutte le parti, timore di superare i limiti e difficoltà a capire dove dovessi andare. Leo e Valentina che dormivano e io che imprecavo mentalmente.
Ma siamo arrivati sani e salvi al motel. Carino, anche se con una presenza un po’ inquietante di un homeless nel parcheggio che ci fissava.
Visto che qualcuno me l’ha chiesto, vi racconto alcune cose del nostro recente tour negli Stati Uniti. Come premessa devo subito specificare che non abbiamo visitato tutti gli stati, ma solo quattro, e in modo anche superficiale, quindi tutto quello che scriverò sarà relativo alla piccola esperienza tra le strade, le città, i paesi e le distese infinite di una parte di: California, Nevada, Utah e Arizona. Per intenderci è come se un turista venisse in Italia, vedesse Venezia, Firenze, Taormina e L’Aquila: un’idea dell’Italia se l’è fatta, ma giusto un’idea.
Vi parlerò di ciò che abbiamo visto, delle mie impressioni, dei miti e dei falsi miti, della gente, vi racconterò aneddoti e alcune piccole riflessioni.
Come prima cosa vi spiego per sommi capi il nostro itinerario: Los Angeles, Disneyland, Hollywood, Santa Monica, Death Valley, Page, Monument Valley, Grand Canyon, Route 66, Joshua Tree Park, Palm Springs, San Diego e Tijuana.
In una bella giornata di luglio, Io e Leo partiamo da Capanne di Cosola. Non sappiamo quanto staremo via, quindi ho con me uno zaino grande pieno di cambi (e di acqua). Leo ha il suo zainetto di Bing, con dentro qualche panino, che dopo poche centinaia di metri lascia portare a me.
Chi ha fatto questo percorso lo sa: è tutto un saliscendi, e la meta sembra non arrivare mai. Dopo un’ora di cammino, l’app che utilizzo mi segnala che abbiamo fatto solo il 9% del percorso. Un pelino di sconforto inizia ad insinuarsi nella mia testa: sono già molto stanco, soprattutto a causa del peso che devo portare (lo zaino, lo zainetto, e spesso anche Leo) e ho compiuto meno del 10% da “fresco“, quindi per fare tutto il percorso di oggi ci metteremo, se va bene, 10 ore? Ohibò, siamo partiti molto tardi, alle 10. Ho fatto male i miei conti.
Per ora proseguiamo, non ci sono molte alternative, siamo in mezzo ai monti. Finché non arriveremo a una strada asfaltata non c’è neanche modo di farci venire a prendere. Quindi forza, coraggio, pause, e si prosegue. Cerco di portare in spalla Leo nelle discese, perché nelle salite mi è davvero impossibile: oltre al peso, lo zaino mi ingombra e quindi il bambino mi sta sulle spalle in una posizione sbagliata, pesandomi sul collo, sulla nuca e sulla testa.
Dove non possono le energie, può la forza di volontà. Quando arriviamo alle pendici del Monte Carmo la traccia mi dice di circumnavigarlo. Col cavolo: per me fare “trekking” vuol dire conquistare, e quindi DEVO conquistare anche questa cima. Saliamo. Poi scendiamo fino a Capanne di Carrega.
Siamo solo a poco più di metà percorso e sono già le 15:30, sono molto provato, i cartelli indicano che per raggiungere il monte Antola ci vogliono due ore, col passo da escursionista ovviamente, noi abbiamo i tempi dilatati e quasi raddoppiati, per ovvie ragioni.
Secondo me ce la facciamo. Non so come, non so quando, non so in che condizioni, ma arriveremo.
Il mio dubbio più grande, ovviamente, riguarda Leo.
Per ora si è fatto portare poco, ma per esperienza potrebbe cedere da un momento all’altro, e non camminare più. Non ha neanche quattro anni e la tappa di oggi è lunga oltre 16 km, e soprattutto con un forte dislivello. A volte, quando facciamo un giro per Voghera, non vuol più camminare e mi tocca portarlo in braccio per qualche centinaio di metri. Qui siamo in montagna, sono stravolto, e stiamo parlando di chilometri.
Ma ce la faremo, ne sono sicuro.
A volte mi tolgo lo zaino e mi rendo conto che improvvisamente mi tornano tutte le energie. Per capire se è solo una sensazione oppure è davvero così, mi tolgo lo zaino e provo a fare una corsetta. Viaggio come un treno. Ottimo. Vuol dire che le forze ci sono, e con il mio bambino sono pronto ad andare anche sulla Luna.
Fortunatamente la salita all’Antola è lunga, ma non molto ripida. Leo sembra in grande forma. Io sfodero tutti i miei trucchi psicologici a disposizione: giochiamo a nascondino, giochiamo a “tu non mi prendi”, cantiamo canzoni, facciamo video, giochiamo a chi arriva prima, guardiamo se vediamo le mucche e cerchiamo di evitarne le cacche, raccogliamo fiori da portare alla mamma, ecc.
L’ultimo tratto è ancora in netta salita. Leo vorrebbe esser preso in spalla, ma la mia schiena si rifiuta, allora lo prendo in braccio. Anche in questo caso la traccia vorrebbe farmi tagliare la vetta del monte Antola per andare verso il rifugio. Non ci penso neanche, sono nove ore che cammino e voglio piantare la bandiera virtuale sulla vetta.
Quando siamo là in alto è una sensazione eccezionale, indescrivibile. Ce l’ho fatta, considerando che dopo un’ora di cammino ero già stanchissimo. Ce l’abbiamo fatta, siamo una squadra fortissima. Soprattutto Leo ce l’ha fatta! Sono estremamente orgoglioso del mio bimbo. È qui che salta come una cavalletta, non ha mai fatto una volta i capricci, ha mangiato, bevuto e riposato quando doveva, e ha camminato tanto, sicuramente più di due terzi del percorso. È il mio campione.
Raggiungiamo il rifugio del Parco Antola, dove ci attende una bella doccia e una cena deliziosa, degna dei migliori ristoranti (giuro, vi assicuro che non era la fame, era proprio tutto molto buono). Troviamo anche una famiglia con un bambino di un anno più grande di Leo. Loro sono partiti da Capanne di Carrega o da Casa del Romano, quindi hanno fatto un po’ meno di metà del nostro percorso (e soprattutto la parte più facile), e il papà mi diceva che ha portato il bambino in spalla per ben più di metà del percorso.
Giorno 2: dopo un sonno ristoratore e un abbondante colazione prendiamo il sentiero che ci farà scendere verso Torriglia. Penso che ho già chiesto tanto al mio piccolo, quindi decido che sarà il nostro ultimo giorno. Chiamo l’albergo (che avevamo prenotato) per disdire, dicendo che sarai passato per lasciare ciò che dovevo, ma loro, molto gentilmente, mi hanno ringraziato per aver telefonato e mi hanno detto che eravamo a posto così. Ho chiamato Valentina, con la quale eravamo già d’accordo di vederci a Torriglia, comunicandole che saremmo tornati tutti insieme con lei.
La discesa è stata piacevole e, anche se nel tratto finale è molto impegnativa in quanto tutta mulattiera, non ha presentato particolari problemi. Abbiamo chiacchierato e giocato. Siamo arrivati a Torriglia alle tre del pomeriggio per un bel gelatone.